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Il filone cinematografico del legal thriller è da sempre uno dei più popolari, grazie ad un fascino magnetico per il pubblico; nella storia della Settima Arte, come spesso succede con idee che portano soldi, si è abusato e si continua a farlo di questo tipo di film facendone uscire a valanghe ad ogni stagione con l’ovvio rischio che la quantità non vada di pari passo con la qualità. Certo la continua evoluzione della società, lo sviluppo delle tecniche di indagini e la sempiterna complessità del mondo del diritto danno in ogni caso spunti sempre nuovi per mettere in scena opere originali, ma capita sempre più di rado. Difatti l’ultimo legal thriller uscito al cinema, “Un alibi perfetto” , può annoverarsi tranquillamente tra le pellicole del genere poco riuscite: non basta moltiplicare i finali, non è sufficiente capovolgere le situazioni invertendo i ruoli di vittime e carnefici, non sempre inseguimenti e indagini riescono a creare la suspense necessaria ai colpi di scena inevitabili per tali film. Il regista Peter Hyams ha preso spunto da un’opera di Fritz Lang del 1956, “L’alibi era perfetto”, creandone un remake talmente libero da costringere ad appigliarsi al titolo per notare similitudini con il film-musa: a parte il marpione Michael Douglas, la cui età avanzata può divenire un punto di forza per affrontare ruoli così ambigui, la messinscena pare arrancare sulle spalle del giovane protagonista Jesse Metcalfe che non mostra alcun cambio di registro recitativo nelle diverse parti in cui è suddiviso il film; eppure il ruolo dell’agguerrito reporter televisivo C.J. Nichols poteva divenire essenziale alla riuscita o meno di “Un alibi perfetto” perché, nonostante la fragile sceneggiatura, l’intensità e le sfaccettature molteplici della personalità del giornalista erano elementi interessanti ed utili a costruire un personaggio catalizzatore dell’attenzione dello spettatore.
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