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Struggente racconto, che è quasi un diario, di Adele che descrive minuziosamente la vicenda dolorosa del padre, colto da una forma estremamente invalidante di ictus, e del coinvolgimento familiare fino allo stremo, nel tentativo di rendere vivibile quel che rimane della vita del malato. Il racconto si presenta a due voci alternate, una reale, della scrittrice, l’altra intuita dalla stessa e ricostruita, quindi verosimile, come fosse scritta dal padre. Mirabile forma di rappresentazione di un dramma familiare, non saprei dire se colpisce di più quel che racconta la figlia o quello che “pensa” il padre, afasico e immobile. Nonostante che la devastante malattia si manifesti con segni apparentemente finali (afasia completa, immobilità assoluta, crisi respiratorie ripetute, sepsi, tracheotomia, peg), tuttavia, sia il paziente sia i familiari si aggrappano a ogni possibilità di recupero riabilitativo, che alla fine ha successo, permettendo un ritorno al sospirato domicilio, con una assistenza adeguata. Ma il calvario precedente è la manifestazione di una lotta impari tra tutti i componenti della storia e un destino che si presenta loro in maniera non solo inaspettata ma soprattutto difficile da affrontare e gestire. Le strutture di riabilitazione che hanno accolto il malato per quanto siano state efficienti, non hanno potuto appianare tutti i disagi e le difficoltà comunicative del malato. Ciò richiama l’attenzione sulla capacità professionale, psicologica e umana degli operatori sanitari in genere nel rapporto con pazienti fortemente disabili, afasici e immobili, che sicuramente avrebbero tanto da “dire”. Ci sono nelle pagine frasi toccanti, che rivelano un’intesa familiare notevole e una consapevolezza che qualsiasi malattia va accettata, perché “Non scegliamo noi di sopravvivere o morire. Ci capita e basta…” Questo libro fa bene a tutti: medici, infermieri, operatori sanitari vari, pazienti e familiari, ma soprattutto fa bene ai sani, perché colgano il significato fragile e provvisorio della vita, che va difesa e curata comunque. Uno degli ultimi righi, al termine di considerazioni sulla precarietà personale e familiare in cui ci si trova in talune malattie devastanti, recita: “Non sarebbe, allora, forse, questo un buon motivo per scegliere di morire?”. Per quanto mi riguarda, è bene che ci si limiti alla domanda, pur legittima, piuttosto che dare una o più risposte. È sufficiente per meditare su come vivere la vita, piuttosto che desiderarne o deciderne la fine.
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