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Anno edizione: 2018
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Cominciamo col dire che è tendenzialmente un brutto segno se impiego così tanto a finire un romanzo, e impiegare un mese e mezzo per me è decisamente troppo, persino per un romanzo di 800 pagine. Ciò detto, si tratta di una bellissima storia. Bellissima e triste. Nominalmente, anche in Bleak House ho trovato quei pregi che hanno reso Dickens uno dei miei autori preferiti. Tra questi, l’aver ritratto dei personaggi incredibili e indimenticabili, di straordinaria nobiltà – così nobili da rimetterti in pace con il mondo (almeno finché non ti rendi conto di quanto eccezionali essi siano). In questo caso, tuttavia, a questi consueti pregi fanno da contraltare degli aspetti che mi hanno fatto amare questo romanzo un po’ meno di altri. Per farla breve, l’ho trovato davvero molto, troppo prolisso. Per buona metà del romanzo Dickens si premura di aprire ogni cap. con un’ampia introduzione, estremamente meticolosa, come se a ogni cap. ricominciasse in un certo senso daccapo, producendo in tal modo l’effetto di rallentare la narrazione abbassando notevolmente il ritmo. Un effetto particolarmente vistoso in un romanzo di tale lunghezza (le 800 pagg. peraltro sono bugiarde, essendo scritto con caratteri molto piccoli). Sia chiaro: non mi sognerei mai di sconsigliare questo romanzo. Semplicemente, siate preparati a ciò cui andate incontro, e cercate di leggerlo in un momento in cui siete presi dal demone della lettura.
Un'abitazione siffatta tanto all'inizio del romanzo quanto alla sua fine.Esther nasce proprio male. Illegittima, viene accolta in casa dal tutore Jarndyce. Questi ne fà la governante, sembra addirittura volerla sposare salvo dirottarla in extremis in moglie al medico filantropo Woodcourt. Siamo in piena rivoluzione industriale, ma questa trama è congelata nel passato delle idee. Il sistema delle dipendenze affettive è sostenuto da una forza unificatrice dalle conseguenze ben conosciute. Molti si trovano fuori posto senza per questo rendere traballante il ruolo ricoperto. Il ruolo assorbe anche l'individuo privo di attitudine e preparazione specifica. Il beneficio è tutto del ruolo e non dell'interprete. Mi è stata fatta notare la ritrosia a parlare di un personaggio, il ragazzo povero Jo, vulgo Pellaccia. Per lui non valgono le considerazioni generali sugli altri. Il suo ruolo è quello proprio e lo svolge per intero anche se difetta un pò di forze. Questo "kid" vive da solo, con il supporto saltuario ma non irrilevante di un copista che muore per overdose di oppio. A causa di quest'ultimo è coinvolto nei risvolti "gialli" della vicenda. Interrogato, rievoca il buon cuore dello scomparso che onestamente riconosceva di non essere sempre in grado di provvedere al giovane amico. Jo vorrebbe dire ancora qualcosa al copista e non trova altri che il "club man" ad accogliere la sua deposizione. Costretto dalla "mafia" a tenere la bocca chiusa ed a tenersi alla larga, non vuole più essere accudito da una specie di madre adottiva fragile. Dovrà andare incontro da solo all'epilogo, imparando in extremis qualche parola del "Padre Nostro". Tale personaggio si troverebbe a suo agio con l'autore del quale sentiamo una grande mancanza, e cioè Dostoevskij. Le risorse mobilitate dai suoi personaggi fanno venire una gran voglia di applicarle a questi qui. La grande madre Russia ed il grande Regno Unito hanno bisogno una dell'altro. Alla fine forse il titolo potremo cambiarlo e questa casa si meriterà un altro aggettivo.
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