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La raccolta degli scritti dei monaci del monasteri di Thibirine, nel cuore dell'islamica Algeria, ripercorre l'esperienza della comunità monastica a contatto con l'altro per eccellenza: l'Islam è il vicino di casa, è l'ospite inatteso, è l'orante notturno. In questo modo si intrecciano nuove relazioni e nuovi modi per leggere dentro al Cristianesimo una somiglianza inattesa. Questa esperienza di fede è utile per leggere con occhi nuovi il presente e la diffidenza che serpeggia comunemente verso i credenti islamici. Un libro che cambia la fede, la fede che cambia la vita.
Nel dicembre del 1991, in Algeria, al primo turno delle elezioni legislative il Fis riporta un successo travolgente; pochi giorni prima del secondo turno “l’esercito algerino –come si legge nella cronologia degli eventi a inizio libro- effettua un colpo di stato, annulla le elezioni e dissolve il Fis. L’Algeria piomba nella tempesta di un ciclo ininterrotto di violenze”, vengono uccise oltre centomila persone nell’arco di cinque anni. In questa realtà di violenza, nei pressi di Médéa, in un villaggio di nome Tibhirine, giardino in arabo, c’è il Monastero di Notre-Dame de l’Atlas, fondato nel 1938 dalle Abbazie di Rahjenburg (Slovenia) e di Aiguebelle (Francia); diventa poi priorato autonomo nell’84. La comunità è nel vortice tra i gruppi terroristi e le forze di sicurezza, “sul fronte tra quelli che i monaci chiamano, per desiderio di pace, ‘i fratelli della montagna’ cioè i partigiani islamici, e ‘i fratelli della pianura’, i militari e le forze di polizia”. Su questo crinale di guerra il giardino è luogo di pace, di preghiera, di lavori agricoli e domestici, i trappisti non cercano proseliti, il rispetto è pari, i fratelli musulmani vivono in armonia con i monaci, e i monaci sono attenti alla vita del villaggio, “uniti dalla ricerca di Dio in una relazione fraterna tra loro e con il popolo algerino”. Poi la notte di Natale del 1993 degli uomini armati cercano “il papa del luogo” e minacciano la comunità. La spirale della violenza stringe la vita dei monaci, uomini “normalissimi (…), carichi di speranze e fiaccati da disillusioni. Intellettuali alcuni, più pratici e manuali altri, alcuni dotati di capacità comunicative, altri taciturni…”. Che discutono e si confrontano intorno al tavolo della cena per capire quale sia il loro posto, adesso, in questo clima e con queste violenze, cercano una soluzione comune, votano le proposte per il futuro che sta stringendo, poi ognuno affronta nella propria solitudine il sentire umano del possibile distacco, l’utilità o meno della propria presenza a Notre-Dame de l’Atlas, il desiderio di partire, il non-senso, poi infine la decisione di tutti è quella di rimanere, perché è forte la consapevolezza come se fossimo responsabili non di qualcosa da fare, ma di qualcosa da essere qui, dice Frére Christophe nella sua relazione di Natale. I monaci sperano ancora in un sentiero possibile di pace nel giardino e fuori, un segno sulla montagna. È chiara l’impossibilità di lasciare i fratelli musulmani, soli, esposti. “L’islam è nato nel deserto, come il monachesimo”. Il priore è Frère Christian de Chergé, nato in Francia a Colmar, nel 1937, figlio di un generale, ha vissuto in Algeria nell’infanzia e più di due anni durante il servizio militare, durante la guerra d’indipendenza. Entra nel monastero di Aiguebelle a 32 anni, dopo qualche anno a Tibhirine. Anche Frère Bruno Lemarchand (nato in Francia nel 1930) è figlio di un militare e da ragazzo conosce l’Indocina ed è militare in Algeria; nel marzo del ’96, nei giorni del sequestro si trova nell’Abbazia algerina per il rinnovo della carica di priore. Frère Luc Dochier è nato in Francia nel 1914, è medico ed esercita la professione in Marocco, durante il servizio militare, a 27 anni diventa trappista ad Aiguebelle, poi, dopo due anni di prigionia volontaria in Germania, parte per Tibhirine. Nel villaggio algerino ogni giorno una lunga fila di persone, perlopiù musulmane attende di essere visitata da lui, e ascoltata. Il 1° gennaio 1994, nel mese del suo ottantesimo compleanno, in sala da pranzo con i suoi fratelli, Luc fa ascoltare una cassetta di Edith Piaf con la canzone Non, je ne regrette rien. No, nulla di nulla, non rimpiango nulla; né il bene che mi è stato fatto né il male. Frère Cristophe Lebreton è il più giovane della comunità dei monaci (nato in Francia nel 1950), sessantottino, a 24 anni entra novizio a Tamié, abbazia cistercense della Savoia, poi, dopo la professione, parte e rimane stabilmente nell’abbazia algerina. Nel suo testamento Il mio cuore è per la vita,/ ma, per favore, / nessuna smanceria /tra lei e me. Frère Michel Fleury fino a diciassette anni ha lavorato in campagna insieme alla sua famiglia (nato nella Loira nel 1944); poi come fresatore a Lione, Parigi, Marsiglia. Nel monastero è il cuoco e l’uomo dei lavori domestici. Anche Frère Célestin Ringeard fa il servizio militare per due anni in Algeria (era nato in Francia nel 1933, in seminario a 12 anni), è infermiere e cura un partigiano algerino che l’esercito francese avrebbe voluto finire, poi fa il prete di strada fin dopo i cinquant’anni quando parte per Atlas: ad Algeri, al suo arrivo, trova la persona musulmana a cui aveva salvato la vita. Frère Paul Favre-Miville è del ’39, francese, fabbro poi idraulico, entra a Tamié a 45 anni, cinque anni dopo parte per Tibhirine. È ‘l’uomo dell’acqua’, realizza un impianto di irrigazione per gli orti dell’Abbazia. Nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996 un commando armato entra nel monastero e prende in ostaggio i sette monaci. Anche Frère Jean-Pierre e Frère Amédée fanno parte della comunità ma sono scampati al rapimento. Il libro raccoglie scritti dei monaci ed è la testimonianza dell’insieme della loro vita finita tragicamente come quella di migliaia di algerini in quegli anni. “È proprio per avere voluto continuare a essere monaci che i fratelli dell’Atlas sono divenuti martiri. (…) Come naturale evolversi di una vita donata”, dice Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, nella prefazione.
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