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Perché le nazioni falliscono. Alle origini di potenza, prosperità, e povertà
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Perché le nazioni falliscono. Alle origini di potenza, prosperità, e povertà - Daron Acemoglu,James A. Robinson - copertina
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Perché le nazioni falliscono. Alle origini di potenza, prosperità, e povertà

Descrizione


Per la scienza sociale è la madre di tutte le domande: perché ci sono paesi che diventano ricchi e paesi che restano poveri? Per quale ragione nel mondo convivono prosperità e indigenza? Alcuni si soffermano sul clima e sulla geografia. Ma il caso del Botswana, che cresce a ritmi vertiginosi mentre paesi africani vicini, come Zimbabwe, Congo e Sierra Leone, subiscono miserie e violenze, smentisce questa interpretazione. Altri chiamano in causa la cultura. Ma allora come si spiegano le enormi differenze tra il Nord e il Sud della Corea? E che dire di Nogales, Arizona, che ha un reddito prò capite tre volte più alto di Nogales, Sonora, città gemella messicana? Le origini di prosperità e povertà risiedono nelle istituzioni politiche ed economiche che le nazioni si danno. Ce lo dimostrano Daron Acemoglu e James A. Robinson, accompagnandoci in un emozionante viaggio nella storia universale, di civiltà in civiltà, di rivoluzione in rivoluzione. Dall'Impero romano alla Venezia medievale, dagli inca e i maya, distrutti dal colonialismo spagnolo, al devastante impatto della tratta degli schiavi sull'Africa tribale, dalla Cina assolutista delle dinastie Ming e Qing al nuovo assolutismo di Mao Zedong, dall'Impero ottomano alle autocrazie mediorientali, le élite dominanti preferiscono difendere i propri privilegi ed estrarre risorse dalla società che avviare un percorso di benessere per tutti.
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Dettagli

2013
14 marzo 2013
527 p., ill. , Brossura
Why nations fail
9788842818731

Valutazioni e recensioni

Recensioni: 5/5

Ottimo testo . Utile per riflettere sulle origini delle difficolta' economico-finanziarie dei Paesi.

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Recensioni: 5/5

Perché le nazioni falliscono Proporre un tema così complesso in questa lunga notte di crisi globale è senz’altro una sfida intellettuale ambiziosa, forse vinta se l’opera è stata anche definita «una bibbia per le nostre classi dirigenti». Gli autori effettuano una lunga traversata nella storia (non solo) economica, ricostruendo diversi snodi serventi a mostrare il forte link che, nella loro interpretazione, è presente (in senso prevalentemente causale) fra democrazia e crescita (non solo) economica. Sotto il profilo metodologico la questione non consiste nel cercare soluzioni a tavolino al problema della povertà e arretratezza (gli autori formulano sollevano anche critiche propositive al funzionamento degli aiuti internazionali allo sviluppo), ma capire i motivi specific country che le determinano, per definire poi a livello generale principi d’intervento. Si soffermano quindi a evidenziare le debolezze logiche delle teorie della disuguaglianza globale (le ipotesi geografica ovvero l’influenza deterministica dell’ambiente naturale, culturale à la Max Weber e dell’ignoranza basata sull’impreparazione dei policy maker) per proporre poi la loro ipotesi, basata e testata sulle dinamiche storiche. Il perseguimento della prosperità non può prescindere dalla equilibrata soluzione di alcuni fondamentali problemi politici: se le istituzioni economiche sono cruciali per lo sviluppo, “la qualità delle istituzioni economiche dipende dalla politica e dalle istituzioni politiche”. Nell’interazione fra economia e politica prevale il primato del politico. Istituzioni inclusive ed estrattive Ma quali sono le “buone “ istituzioni (sia in economia che in politica)?: gli autori propongono una semplice tassonomia: istituzioni, politiche ed economiche, “inclusive” e “estrattive”. Nella sfera economica sono riconducibili all’inclusività quelle che garantiscono il rispetto della proprietà privata, un sistema giuridico imparziale, la possibilità di aprire nuove attività; sono quelle che promuovono due importanti fattori di prosperità: l’innovazione tecnologica e lo sviluppo dell’istruzione costituiscono; sono quelle, si potrebbe sintetizzare, in cui possono esplicarsi animal spirits e distruzione creatrice,. Viceversa, sono estrattive quelle che risultano serventi alla tutela degli interessi delle élite al potere, per appropriarsi del reddito e della ricchezza nazionali . Nella sfera politica, possono definirsi inclusivi i sistemi caratterizzati a) da un equilibrato mix fra accentramento / decentramento dei poteri (per ovviare a perniciose spinte centrifughe, se non lotte tribali in senso proprio in alcune zone del mondo o figurato fra clan e cordate in altre) e b) da contendibilità nelle posizioni di governo (volendo semplificare: pluralismo politico, competizione elettorale selettiva, cultura istituzionale…); quelle estrattive sono invece connotate a) da deciso accentramento (o estrema frammentazione) del potere nelle mani di una cerchia ristretta e poco permeabile cerchia e b) carenza nei poteri e meccanismi di funzionamento degi riconosciuti limiti istituzionali all’esercizio del potere. Non secondaria alla affermazione di istituzioni inclusive è anche una effettiva libertà (autonomia dal potere) dei mezzi di comunicazione. Il meccanismo della crescita Questo a grandi linee l’algoritmo che regola la crescita delle nazioni: 1) la specifica combinazione fra istituzioni economiche e politiche determina differenti intensità del percorso evolutivo dei sistemi; 2) quando si verificano le cd. congiunture critiche - come l’apertura delle rotte commerciali atlantiche – si può progressivamente amplificare il gap fra tali divergenze conducendo a una più profonda differenziazione nelle traiettorie storico-istituzionali dei sistemi; in sostanza le istituzioni, in primo luogo politiche, che si affermano in un paese nel corso della propria storia ne determinano in maniera forte il relativo trend di crescita. Viene quindi suggerito che l’ingrediente essenziale per lo sviluppo economico è costituito dal pluralismo: un sistema politico pluralista rende più difficile che una singola forza si impadronisca del potere e imponga una logica estrattiva. A loro volta, istituzioni economiche inclusive favoriscono una ripartizione più equa delle risorse, e in questo modo consolidano il pluralismo. È quindi una dialettica politica competitiva che consente il cambiamento delle istituzioni ed è la storia, con i suoi momenti di congiuntura critica che fa lievitare le differenze, all'inizio piccole, quasi insignificanti, ma poi via via più marcate, tra le nazioni: determinando il brodo di coltura, più o meno vitale, per una dialettica economica competitiva che garantisca la spinta concorrenziale e innovativa. Viene quasi da dire che la politica, anche con riforme “a costo zero”, può stimolare la crescita pur in tempi di crisi. Coerentemente con questa visione, gli autori non escludono l’eventualità che il gigante cinese possa veder interrotta la sua potente crescita – incardinata su istituzioni economiche carenti in distruzione creatrice e innovazione - se le istituzioni politiche non daranno risposta alla domanda di inclusività, non solo economica, riveniente dalla società civile. Andando oltre Il discorso di Acemoglu e Robinson - in sintesi estrema: alla lunga l’economia funziona solo se funziona la politica - si rivolge alla scala nazionale ma, auspicando che lo facciano quanto prima, sarebbe interessante e utile vedere se e come sia possibile ampliare il loro schema oltre che per conciliarlo alle diversità intranazionali (si pensi al nostro divario Nord-Sud), soprattutto per allargarlo alle diverse globalizzazioni succedutesi nel tempo, alla in parte correlata tendenza a creare zone economiche e politiche multinazionali, all’odierno conflitto fra economia globale e politica / diritto nazionale . Ciò considerando che le dinamiche di crescita e strutturazione del settore finanziario, con virulenza nei due decenni a cavallo nel passaggio di millennio, hanno introdotto elementi di debolezza globali, con potenziale impatto sui sistemi democratici.

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ALDO VECCHI
Recensioni: 3/5

Nel lontano 1970 partecipavo ad una “Commissione Riforme” del movimento degli studenti di architettura di Milano, il cui assunto era - grosso modo - quanto anche il capitalismo “avanzato” fosse piuttosto cattivo, e non ci fosse da fidarsi delle sue “riforme”; rammento che ai margini di quella ricerca mi rimaneva il dubbio (eretico) su perché comunque in Scandinavia si vivesse (socialmente parlando) meglio che in Italia, ma non ebbi molto tempo per coltivarlo, perché forti dosi di repressione erano alle porte e con la crisi (non solo “petrolifera”) del 72-73 il riformismo in Italia comunque non era più di moda. Alle mie domande di allora pensavo che potesse rispondere il ponderoso e celebrato saggio degli accademici americani Daron Acemoglu (di origine turca) e James A. Robinson, edito negli USA nel 2012 ed in Italia nel 2014 (“PERCHE’ LE NAZIONI FALLISCONO - Alle origini di potenza, prosperità, e povertà” – Il Saggiatore - cartaceo € 22 - eBook €10.99), ma al termine delle oltre 400 pagine mi dichiaro abbastanza deluso. Il testo è di facile lettura, in quanto povero di dati statistici e ricco invece di racconti ed aneddoti, con numerose incursioni non-cronologiche su oltre 10.000 anni di storia in tutti i continenti, (quasi in antinomia speculare con “Debito: i primi 5.000 anni” di Graeber – vedi mio post - e per me un utile ripasso per le vicende dell’emisfero nord, e informazioni prima quasi sconosciute sull’emisfero sud), ma risulta anche ripetitivo, assertivo e talora apodittico. La tesi degli autori (che ripeto qui anche se è già stato ben riassunta in altre recensioni: segnalo in particolare quella de “IL POST”) è che il successo economico (ed il benessere) delle nazioni non dipendono da clima&risorse, né da fattori culturali (inclusa la presunta “ignoranza dei ceti dirigenti”), bensì dalla qualità delle istituzioni politico-amministrative: - le istituzioni “inclusive” (ovvero pluralistiche), attraverso la certezza del diritto (in primis di proprietà privata) ed il possibile ricambio delle élites, consentono l’apertura al nuovo e il benefico processo della “distruzione creatrice” e perciò l0 sviluppo (paradigmatica l’evoluzione inglese, prima e dopo le rivoluzioni del 17° secolo); occorre però la premessa di una discreta centralizzazione dello stato; - le Istituzioni “estrattive” mirano solo ad accumulare e perpetuare i privilegi delle élites, paventando le innovazioni e bloccando gli accessi a nuovi metodi di valorizzazione delle risorse (esemplari le chiusure contro l’introduzione di fabbriche e ferrovie da parte degli imperi austro-ungarico, russo ed ottomano nel primo Ottocento); con il rischio che nelle fasi di crisi succedano nuove élites altrettanto “estrattive” oppure che il territorio si frammenti in spinte centrifughe, per effetto della ricerca diffusa di poteri esclusivi (così sarebbe terminato l’impero dei Maya). - Le prove addotte da Acemoglu e Robinson sono ampie (a partire dagli insediamenti “natufiani” che nel medio oriente del 9500 a.C. pervennero all’agricoltura previa formazione di villaggi stanziali, e non viceversa), ma non sempre convincenti; ad esempio: - il paese di Nogales, diviso tra USA e Messico, con crescenti divergenze nei livelli di prosperità: però dallo stesso testo risulta che ambedue le comunità sono state fondate dopo la definizione del confine (e non dividendo in 2 un preesistente insediamento), per cui diverse a mio avviso sono state anche dall’origine - la colonizzazione del Sud e del Nord America, la prima fondata sullo sfruttamento schiavistico degli indigeni sottomessi e sulla depredazione delle risorse naturali, la seconda invece necessariamente basata sul lavoro degli stessi coloni bianchi: Acemoglu e Robinson però trascurano il particolare del genocidio perpetrato a danno dei più riottosi indigeni “pellerossa” e isolano da questo ragionamento le loro pur ampie dissertazioni sulla deportazione degli schiavi africani - il relativo successo del (solo) Botswana, che - dopo l’indipendenza dal colonialismo britannico e grazie ad una qualche persistenza di preesistenti strutture tribali di tipo “inclusivo” – avrebbe raggiunto un PIL pro capite al livello di Lettonia o Ungheria, cioè assai alto se raffrontato con il disastro di gran parte del restante continente africano, ma non con il benessere di popoli ugualmente remoti, ma non assoggettati al colonialismo europeo, come ad esempio il Giappone. Più interessante che non la tesi centrale del libro, è – a mio avviso – il metodo di indagine sugli sviluppi storici (benché minato dalla separazione degli argomenti e dalla mancata concatenazione di fondamentali fattori a livello internazionale), che cerca di evitare ogni determinismo nella trasformazione delle istituzioni, e di assimilare invece le acquisizioni tipiche della genetica e della linguistica, e cioè la (piuttosto casuale) accelerazione delle divergenze in presenza di particolari fasi critiche (ad esempio la “Peste Nera” sul finire del Medioevo in Europa, che – riducendo drasticamente la forza-lavoro disponibile - porta in Occidente alla estinzione della servitù della gleba ed invece in Oriente ad una sua recrudescenza). Ma tale raffinatezza di analisi (che contrasta con un certa grossolanità di approccio – a mio avviso – sull’esperienza del comunismo sovietico e mostra la corda nella difficoltà di interpretare l’odierno regime cinese, che secondo gli Autori non potrà svilupparsi a lungo senza profonde riforme) non può superare il peso - delle enormi carenze di lettura della storia complessiva del mondo da parte degli Autori, e cioè la correlazione necessaria tra il benessere degli uni (ad esempio gli anglosassoni, inclusivi a casa loro) ed il malessere degli altri (direttamente colonizzati o sfruttati per inique sperequazioni commerciali di carattere imperialistico, ad esempio dagli stessi anglosassoni, estrattivi casa d’altri, a partire dalla vicina Irlanda) - dei giudizi aprioristici e comunque non-dimostrati quali quello sulla ricchezza materiale come unica misura del benessere, oppure la necessità di proprietà privata ed incentivi economici per ogni sviluppo del progresso umano (che dovrebbe quindi essere assente anche nei “settori pubblici” delle società avanzate, mentre mi pare che non manchi in università ospedali e centri di ricerca, anche poveri di progressioni economiche, come spesso è in Europa) od ancora sulla “distruzione creatrice”, che sempre agirebbe positivamente (mentre qualche volta distrugge valori non riproducibili, sociali oppure ambientali). - Non mi convince inoltre l’eccessiva autonomizzazione degli aspetti istituzionali dal retroterra socio-economico (vedi un certo Marx) e dagli stessi fattori culturali (ad esempio l’influenza dei movimenti di riforma protestante nelle divergenze istituzionali e di sviluppo tra le diverse nazioni europee – vedi un certo Weber). Appendice: tra le numerose recensioni, alcune encomiastiche, altre detrattive, e molte variamente dialettiche, mi hanno colpito quelle su Repubblica nell’agosto 2012, a cura di Simonetta Fiori l’una e di Francesco Domenico Moccia l’altra, che mi sono sembrate alquanto distratte: - la prima lamenta la mancanza di protagonisti italiani nelle storie (a parte Giulio Cesare) e di autori italiani nella bibliografia, mentre a me risulta che sia trattata ampliamente la Repubblica di Venezia e che tra gli autori (seppure di testi in inglese) figurino almeno Tabellini e Guiso-Sapienza-Zingales - il secondo trova il testo limitato alla fortuna delle nazioni intere e carente sulle divergenze di sviluppo interne, mentre a me pare ben evidenziato il divario tra stati del sud e del nord degli U.S.A., prima e dopo la fine dello schiavismo, nonché qualche cenno ai divari interni, ad esempio, della Sierra Leone, del Sud Africa, dell’Australia. DICEMBRE 2014 ALDO VECCHI DAL MIO BLOG "RELATIVAMENTE, SI'"

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