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Le prime pagine del romanzo
25.8.2014
Gertrude è un nome che proviene dall'incontro di due termini di origine germanica: Ger che significa: lancia e thrud che indica: forza. Io lo porto, come un fardello.
Mio padre amava la Germania; era entusiasta dell'autoritarismo in politica, e dell'ordine nella società civile che, a torto o a ragione, attribuiva ai tedeschi; ammirava i costumi, la lingua e la storia di quel Paese e riteneva che la sua prima figlia con un nome siffatto sarebbe stata favorita (difficile capire il perché) per imporsi nella vita sociale.
In realtà, non posso dire che sia proprio una disgrazia portare un nome così fosco, gravoso e impegnativo, ma la circostanza costituisce, almeno per me, un impedimento notevole a vivere le relazioni con gli altri con disinvoltura e leggerezza. Di tale nome, infatti, avverto tutto il peso.
E non riesco a trovare consolazione, andando con il pensiero a William Shakespeare che chiamò così la madre di Amleto.
«Meglio andare con la mente a Gertrude Stein!» mi aveva detto una volta a scuola, la mia insegnante di storia dell'arte, cui avevo confidato la mia ambascia. «Pensa al suo salotto artistico parigino, tappezzato di quadri di Cézanne, Matisse, Picasso, Duchamp e Braque e frequentato da Hemingway, Fitzgerald, Anderson, O Neill, Dos Passos.»
Non è un caso, quindi, che questa scrittrice statunitense, di origine ebraica, abbia costituito il mio mito negli anni della formazione culturale: un modello che mi ero proposto, da adulta, di eguagliare. Senza rendermi conto che non ero né nella Parigi di quegli anni dorati né nella sua stessa, molto florida, situazione economica.
Per tali motivi, Gertrude Stein è rimasta per me, soltanto un irraggiungibile miraggio.