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Probabilmente qualcosa in me non risponde, ma questa raccolta di racconti di Lydia Davis non mi ha suscitato che una pallida ombra dell'entusiasmo corale manifestato per questa autrice, di là e di qua dell'Atlantico. Non nego affatto che la Davis (particolare curioso: è stata la prima moglie di Paul Auster) sia una maestra di stile e abbia una straordinaria padronanza del linguaggio; e senza dubbio i suoi racconti sono particolarmente originali. Ma, forse proprio per questo, troppo spesso non riescono a avvincermi, a farmi sentire partecipe, o coinvolto, o assorto... Troppo spesso mi sembra di assistere a qualcosa di sperimentale, di volutamente e deliberatamente costruito - "adesso ti faccio vedere di cosa sono capace" oppure "vediamo come riesce raccontandolo a questo modo" - per cui le emozioni rimangono in disparte, dormienti. Molto spesso il racconto "in presa diretta" - la cronaca "in tempo reale", come si dice, di ciò che il protagonista fa, pensa, dice - mi tiene miglia lontano dalla storia, anziché immergermi in essa. Per non dire, poi, dell'impressione decisamente negativa che mi ha suscitato l'infrazione - deliberatamente voluta, sia chiaro, non certo una svista in una scrittrice come la Davis - della massima delle massime della narrativa: "mostrare, non dire". Sono in tutto otto su trentatré i racconti che mi sono piaciuti, alcuni anche molto. E sono appunto i racconti in cui la ricerca degli effetti, la sperimentazione, la novità dei modi, lo stile della prosa - non di rado incline al linguaggio poetico, essendo la Davis anche affermata poetessa - risultano pienamente funzionali, a mio personale giudizio, alla narrazione della storia e non debordano in esercizi di stile; interessanti quanto si voglia, ma freddi. Jonathan Franzen - tra gli scrittori miei preferiti - ha definito la Davis una "maga dell'auto-consapevolezza": lo sarà senz'altro, ma purtroppo, per quel che mi riguarda, non sono stato mai un fan dei giochi di prestigio...
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