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Nel segno dei padri. La storia di Guglielmina e Peter
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Nel segno dei padri. La storia di Guglielmina e Peter - Giacomo Marinelli Andreoli - copertina
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Nel segno dei padri. La storia di Guglielmina e Peter

Descrizione


Una storia che può sembrare piccola e periferica, ma contiene in sé un messaggio universale.

«Siamo come due bambini persi, diventati vecchi, che si incontrano dopo una lunga vita per riconciliarsi. Pur non avendo commesso niente che meriti una riconciliazione.»

Guglielmina Roncigli è la figlia di Vittorio, uno dei quaranta civili fucilati nella rappresaglia che la Wehrmacht mise in atto a Gubbio, il 22 giugno 1944, dopo l'uccisione di un ufficiale medico tedesco, Kurt Staudacher, da parte di un gruppo di giovani armati dal GAP locale. Le polemiche, nella comunità, sulle responsabilità dell'eccidio - il fatto di sangue più grave in tutta l'Umbria nel periodo dell'occupazione - sono durate decenni. Peter Staudacher è figlio di Kurt. Guglielmina e Peter si incontrano - per caso, ma verrebbe da pensare: per destino - quasi settantanni dopo. Si riconoscono. Si parlano. Si scrivono, a lungo. Né le colpe, né i meriti dei padri ricadono sui figli: ma Peter e Guglielmina capiscono che l'incontro, per quanto fortuito, ha lasciato in dono una responsabilità: la responsabilità di raccontare, di capire, di comprendere, di perdonare, di riconciliare.Ovunque un conflitto lascia ferite e macerie; e oggi più che mai c'è bisogno di un esempio come quello di Peter e Guglielmina, che hanno avuto la forza, la tenacia, la capacità di guardare oltre il muro. Le tracce del loro percorso dovrebbero guidarci nelle infinite incertezze del nostro presente.
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Dettagli

2017
9 febbraio 2017
187 p., Brossura
9788831726252
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Indice

Le prime pagine del romanzo

Il senso di questa storia

Se ne è andata. In silenzio, nella sua casa, a due passi dal cimitero, zona Crocefisso. Se ne è andata, vittima del solito spietato “male incurabile”. Ne soffriva da poco tempo. Ha lottato ma non ha avuto la fortuna di vedere la luce in fondo al tunnel.
Quando Guglielmina Roncigli si è spenta, a neanche 70 anni, la notizia mi è arrivata quasi casualmente, via internet. Una di quelle frasi che non vorresti mai leggere. Anche se ne sei preparato.
L’ultima volta che l’ho incontrata era una domenica di freddo polare, spunteggiato da qualche fiocco di neve, ancora solo un approccio dell’onda siberiana che di lì a qualche ora avrebbe investito il territorio di Gubbio.
Mi aveva cercato, chiamandomi al cellulare, dal suo letto di sofferenza. Mi aveva chiesto di poterla andare a trovare, perché doveva “dirmi una cosa”. Dovevo fare presto, perché purtroppo il “male” aveva emesso la sua inesorabile sentenza. Attendere anche un giorno in più poteva essere troppo tardi.
Sono voluto andare a piedi. Sapevo che mi sarebbe servito camminare: prima, ma soprattutto dopo il nostro incontro.
Guglielmina Roncigli, 69 anni, era figlia di Vittorio Roncigli, uno dei quaranta civili eugubini trucidati dalle truppe naziste nella rappresaglia del 22 giugno 1944, a seguito dell’uccisione di un assistente medico tedesco, Kurt Staudacher, due giorni prima, in un bar centrale di Gubbio.
Una rappresaglia – tristemente conosciuta come l’“eccidio dei Quaranta Martiri” – caduta come un macigno sulla città umbra negli ultimi giorni di occupazione prima della ritirata a nord della Wehrmacht. Una strage scaturita proprio nelle ore in cui Perugia veniva liberata dagli Alleati. Rimarrà la più efferata e sanguinosa in tutta l’Umbria.
Guglielmina Roncigli è stata anche fondatrice e presidente, per alcuni anni, dell’associazione Famiglie dei Quaranta Martiri, nata nel 1997 per onorare le vittime e per lasciare un messaggio di pace e di memoria alle più giovani generazioni.
Ha organizzato e presieduto, in particolare, le celebrazioni per il sessantesimo anniversario dell’eccidio, il 22 giugno 2004, con una cerimonia solenne che ha visto la presenza, tra gli altri, della terza carica dello stato, l’allora presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, e del pre­sidente della Commissione d’inchiesta sul cosiddetto “Armadio della vergogna” (le stragi naziste rimaste impunite), on. Flavio Tanzilli.
Un ruolo, quello di Guglielmina Roncigli, interpretato con signorile sobrietà ed esemplare dignità: di chi altro non chiede che ricordare come la tragedia della guerra possa segnare indelebilmente l’esistenza di tante persone. Lontana da inutili demagogie e spirito rivendicativo, ha saputo ricoprire il suo incarico svolgendo a pieno quelle funzioni per cui era stata designata proprio nelle settimane – quella primavera 2004 – in cui è stata anche silenziosa protagonista di una vicenda rimasta a lungo sconosciuta.
La potremmo definire, la storia di Guglielmina e Peter: lei figlia di una delle vittime del massacro, lui figlio del soldato tedesco la cui morte provocò quella tremenda rappresaglia.
A 60 anni dalla quale, le vite dei due sono tornate a incontrarsi con una casualità sorprendente: figlia forse, anche lei, di una volontà latente. Nel Segno dei Padri.
Una storia incredibile, intima, nascosta tra le maglie del protocollo ufficiale. Una storia che merita di essere raccontata.
Perché i libri decidono vincitori e vinti. Fanno i numeri, chiudono la contabilità dei costi e delle vite.
Il lutto, invece, quello interiore, quello incancellabile e incalcolabile che le guerre portano con sé, segna una persona, una famiglia, una vita. Per sempre.
Quell’ombra perenne non ha peso, colore. Non è una cifra buona per riempire una stanca tabella. Non si tocca, non si percepisce con gli zeri di un bollettino. Non si allevia con il taglio di un nastro. Non sopisce in fondo a un applauso. Non si sazia neppure della preghiera.
E chi lo paga, a prescindere da quale lato della trincea abbia occupato, si sente vittima incommensurabile di uno stesso tragico destino.
Come è accaduto a Guglielmina e Peter.
Senza che potessero neppure comprenderlo, nel 1944, ancora in fasce.
Con la volontà di capirsi, invece, 60 anni più tardi.
Questo libro, a cavallo tra il presente e il passato, tra quei giorni tremendi dell’occupazione tedesca e l’autunno 2003 – quando Peter Staudacher giunse a Gubbio per una visita che doveva essere quasi di curiosità, tramutatasi poi in una scioccante scoperta – è la promessa che ho fatto a Guglielmina, quando le ho parlato, per l’ultima volta, a casa sua, in quella domenica polare.
Ha voluto vedermi, a tutti i costi, anche se non stava bene. Costretta a letto, dove voleva stessero quelle lettere, le sue e di Peter, accanto alle foto di famiglia. In due parole, la sua vita.
Tenace e irremovibile nella volontà, quanto affranta nel fisico, mi ha chiesto di leggere l’ultima lettera, insieme a lei, accanto a lei, a voce alta. Scritta pochi giorni prima da Peter che, venuto a conoscenza del suo “male”, aveva espresso in modo sincero e accorato tutto il suo sgomento e la sua vicinanza. Come fosse una sorella.
Guglielmina ha voluto lasciarmi quella lettera, insieme a tutte le altre, e ha voluto farlo guardandomi negli occhi. Affidandomi quella che era un pezzo della sua vita. Prezioso e inestimabile. Pregandomi di renderla pubblica. E di raccontare questa storia.
Non perché era la sua storia, ma perché il messaggio che portava con sé fosse affidato ai più giovani. Perché ciò che il destino non le avrebbe consentito di proseguire, non fosse comunque del tutto precluso.
Una vicenda contrassegnata da un sentiero epistolare suggestivo che passa dalle testimonianze autentiche di “trincea” del 1944 alle confidenze più innocenti tra i due protagonisti nell’ultimo decennio.
Una vicenda che trasuda il senso più vivo della solidarietà, della sensibilità, della civiltà, di un perdono che in fondo non è perdono. Semplicemente perché i suoi protagonisti – come scrive Peter in una delle sue lettere – sono come «due bambini persi, diventati vecchi, che si incontrano la prima volta dopo una lunga vita, passata separatamente, per riconciliarsi l’uno con l’altro. Pur non avendo commesso niente che meriti una riconciliazione».
Ancora oggi, a 70 anni dalla tragedia che ne è stata la genesi, questo gesto, questa amicizia, questa storia nella sua naturalezza, si erge come qualcosa di alto. Come qualcosa di altro.
Guglielmina se ne è andata: ma i suoi ultimi otto anni di vita, l’amicizia con Peter Staudacher, la loro intima e sincera condivisione, hanno acceso una luce che ha dato senso e sostanza al vuoto che il dramma della guerra aveva loro imposto, e che le asperità della vita non avevano certo loro alleviato.
La storia delle guerre, in ogni epoca, e ancora oggi, rivela sempre una catena di lutti che trascinano altri lutti. Nascosti, anonimi, sconosciuti. E custodi di sentimenti e di valori che appaiono come patrimonio prezioso, la cui unità di misura resta l’esempio.
Guglielmina e Peter ci hanno lasciato la loro storia, il loro esempio. Che è di caratura universale.Una formula empirica ed emozionale da applicare in ogni angolo del pianeta: perché la catena, fatta di odio, rancore, spirito di rivalsa, di faide e di vendette, si può spezzare. Anche nel segno dei padri. Il valore di un messaggio che vale quanto un’intera esistenza.

Conosci l'autore

Giacomo Marinelli Andreoli

è nato e vive a Gubbio. Giornalista professionista, dal 2001 è direttore responsabile del network regionale radio-televisivo umbro trg e del portale internet www.trgmedia.it.Ha collaborato anche con testate nazionali («Il Sole 24 Ore», «Corriere dello Sport», «Oggi») e regionali («Corriere dell’Umbria», «Giornale dell’Umbria»). Nel 2007 ha vinto il Premio Ischia Internazionale di Giornalismo. Nel 2017 pubblica con Marsilio Nel segno dei padri. La storia di Guglielmina e Peter.

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