Il ragazzo fortissimo. Cosa mio figlio e io abbiamo imparato dal cancro

Il titolo del libro, purtroppo, non rende giustizia al suo contenuto, né allo stile. Innanzitutto la vera protagonista, in modo evidentemente consapevole piuttosto che per la pretesa di impersonare il punto di vista oggettivo della vicenda, è l'autrice, madre di un figlio malato di cancro; è poi necessario mettere da parte le proprie aspettative per rendersi conto che, al di là di quella che può sembrare una delle tante storie sulla dura realtà del cancro in età adolescenziale, che solitamente porta a commuovere facilmente un vasto pubblico di lettori/spettatori, c'é invece un'opera immensamente coraggiosa e rischiosa sotto certi aspetti. L'autrice va ben oltre il tentativo, pur sempre utile, di sensibilizzare sull'argomento, cercando invece di trasmettere della propria esperienza un senso più profondo. La scrittura è potente e la forza e dignità che emergono da questa non possono lasciare indifferenti. Il punto non è la narrazione, ma ciò che sta sotto: un'esperienza umana vissuta nella sua interezza. Mirella Borgocroce è buddista e dunque, come spiega nel libro, basa la sua visione del mondo sugli insegnamenti di Nichiren Daishonin. La condizione in cui si ritrova da un giorno all'altro è vissuta fino in fondo con estrema consapevolezza: non lascia spazio all'autocommiserazione perché fin da subito comprende che il periodo più drammatico della sua vita è esattamente il momento giusto per dimostrare a se stessa che la filosofia da lei sempre accolta con convinzione non è mera soddisfazione intellettuale, ma piuttosto la sfida di vedere un senso oltre quelle cose che accadono senza un motivo apparente. Per questo un romanzo simile può suscitare sentimenti contrastanti, essere mal interpretato o per nulla capito. Ma quello che importa, dal mio punto di vista, è l'autenticità di un'opera, che piaccia o meno. E l'autrice è riuscita a portare tutta se stessa nel suo romanzo, con l'obiettivo di offrire la sua esperienza agli altri, senza cercare di mediare quello che per molti potrebbe apparire una visione troppo "estremista" della vita, perché effettivamente richiede una continua messa in discussione di sé. La scelta di incentrare la narrazione sulla propria prospettiva anziché di tentare di assumere un punto di vista oggettivo è dimostrazione di umiltà per il fatto di rispettare il modo che ha il figlio di vivere la propria malattia, imparando anzi molto da quest'ultimo. Notevole è la capacità dell'autrice di mantenere un centro, di dare il giusto peso a ogni parola per rendere la lettura scorrevole pur nella sua densità di significato.