Indice
Le prime pagine del romanzo
Prima di tutto sentiva, più che vedere, la pistola che impugnava. Non era un sogno. Anzi, era una memoria vivida, capace di squarciare qualsiasi cosa facesse, in qualsiasi momento. Quando arrivava, c’era solo quella. Ed era arrivata, di nuovo.
Come si poteva interrompere il flusso di un sogno con un ricordo reale? Era convinto che succedesse solo a lui. Quando questo accadeva, doveva sedersi o appoggiarsi da qualche parte, calmarsi e far scorrere le immagini, aspettando che terminassero. Per cui anche quella volta si alzò e si sedette sul bordo del materasso. Un lieve russare proveniva dal piano superiore del letto a castello. Aveva ceduto il suo posto all’ultimo arrivato. Gliel’aveva chiesto quasi in ginocchio, quella nullità.
Nel buio, respirò e attese.
Cominciava con il tatto, poi si aggiungeva la vista. Tutto, nel ricordo, era chiaro, anche se la giornata era livida e il colore dominante era il grigio. Avvertiva sul palmo della mano la sensazione ruvida del calcio della Tokarev TT33 nella versione jugoslava, con il caricatore a nove colpi.
Seguendo con gli occhi la canna della pistola e proseguendo davanti a sé, vedeva un uomo che teneva per mano due bambini, un maschio e una femmina. Li fissava, conscio di quello che stava per succedere. Non aveva paura, almeno non per sé. Questo era chiaro. Se allargava lo sguardo vedeva attorno a loro alberi, qualche aiuola, uno slargo con un viavai di persone, più in là la strada e le auto in colonna per il traffico del mattino invernale. Il caos, l’affollamento, la gente, nulla di tutto questo li aveva mai fermati. I bambini, però, erano un fatto nuovo. Avevano deciso di colpire prima che l’uomo li lasciasse a scuola. Perché, non era meglio dopo? Questo era l’unico particolare che non riusciva a mettere a fuoco. Forse perché apparteneva ai giorni precedenti.
Tornò a guardare la pistola. Ma non accadeva nulla. Tutto era fermo. Dipendeva da lui, era lui che doveva sparare per primo, era il capo. L’uomo, nel frattempo, spinse la bambina lontana da sé e quella finì a qualche metro di distanza, il visino stupito, quasi offeso da quel gesto scortese e inaspettato. Il ragazzino non riuscì a spostarlo. Si aggrappava alla sua mano con una forza inaudita, deciso a non abbandonarlo, a restare attaccato a lui. Fu quello a farlo vacillare, la Tokarev in pugno, in attesa dei suoi ordini, fedele, sicura, un’arma che non l’aveva mai deluso.
La pistola era lì, immobile tra le sue dita, perché lui guardava il bambino che non mollava la mano del padre. Provò una sensazione netta, quasi una coltellata nella carne, fissando quella scena. Non c’era solo paura negli occhi del ragazzino, ma qualcosa di profondo che andava al di là dell’amore filiale. Era più di una cima lanciata da una barchetta verso una nave venuta in soccorso nel mezzo di una tempesta. Ma anche non ci fosse stato altro, lui si domandò: c’è qualcuno a cui io potrei lanciare la mia cima? Non gli interessava del bambino o dell’uomo, non era pietà o commozione, quella che provava. Gli interessava solo quella domanda su se stesso, talmente violenta da bloccarlo.
Poi i suoi pensieri vennero assordati da uno sparo. Si voltò verso il suo compagno che aveva appena fatto fuoco e questo gli rivolse una smorfia come per dire: che stiamo a fare qui, in mezzo alla strada, le pistole in pugno, la gente che scappa e urla, qualcuno che già sta chiamando la polizia? E allora si mise a sparare anche lui, automaticamente, una, due, tre volte. L’uomo, prima colpito solo a un braccio, crollò a terra trascinando con sé il bambino. Questo si mise a singhiozzare, ma stava bene, compatibilmente con il fatto che era ancora attaccato a suo padre crivellato di proiettili, e sporco del suo sangue. Il compagno si stava avvicinando per il colpo di grazia, quando si udirono delle sirene vicinissime. Allora si voltò verso di lui, fece un sorrisetto osceno, e lo oltrepassò sussurrando: «Tanto è schiattato».
Lui guardò ancora una volta il ragazzino. Poi si sentì tirare via.
Sull’auto, già lontani dal luogo della sparatoria, qualche minuto più tardi, l’altro uomo, con quell’accento napoletano che lui detestava come poche cose al mondo, gli ringhiò addosso: «Ma che cazzo tenevi dint ’a capa, di’, Pino?».
Lui non rispose. Pensava, come gli sarebbe capitato sempre, quasi tutti i giorni, nei trent’anni successivi, a quella mano stretta con tutte le forze, a quel legame. Qualcosa di potente, qualcosa di assoluto. Qualcosa che avrebbe cominciato a provare solo molto dopo, solo nella seconda parte della sua vita, nella strada in discesa che avrebbe finalmente imboccato.
Dedizione, fede.
Ecco, era quello. Avere qualcuno da non abbandonare, da tenere stretto, per cui provare qualcosa di speciale.
Dedizione, fede.
Per trent’anni quel ricordo lo aveva lasciato annichilito, al termine della puntuale proiezione nella sua mente (non aggiungeva né ometteva particolari, sarebbe stato un testimone perfetto, se avesse voluto raccontarlo).
Il ricordo, però, anche se si ripresentava con regolarità, non lo turbava più.
Aveva ottenuto le risposte che cercava. Adesso poteva fare quella telefonata.