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La seconda vita di Annibale Canessa
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La seconda vita di Annibale Canessa - Roberto Perrone - copertina
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seconda vita di Annibale Canessa

Descrizione


A quei tempi c’era una guerra. Lui era un soldato in divisa, eppure, allo stesso tempo, anche un battitore libero.

«Anche la Storia, a volte, è una vicenda personale.»

Negli anni Settanta Annibale Canessa è stato l’uomo di punta nella lotta al terrorismo, quella combattuta in strada, dove le ideologie o i colori politici contavano zero, le pistole sparavano e troppa gente è rimasta a terra. “Carrarmato Canessa” lo chiamavano, perché era irruente, forte, deciso. Nel lavoro, ma anche con le donne, attratte dalla sua vita in perenne pericolo, dal suo essere inafferrabile, dal profondo senso dell’onore. Questo era prima, molto tempo fa. Perché poi c’è stato quel giorno nero del 1984 in cui tutto è crollato – certezze, fiducia, sogni – e lui ha lasciato l’Arma, preferendo l’esilio nel suo paradiso personale, San Fruttuoso, tra nuotate all’alba e il piccolo ristorante da gestire con un’anziana zia. Dalle ombre del passato però non ci si libera mai del tutto, e questa verità diventa dolorosa la mattina in cui da Milano arriva una notizia: suo fratello Napoleone, che non incontrava da trent’anni, è stato massacrato da una raffica di Kalashnikov. Accanto a lui, steso sull’asfalto, il corpo di “Pino” Petri, ex terrorista di spicco che proprio Annibale, nella sua precedente vita, aveva arrestato. Ma che facevano quei due insieme? E chi li ha uccisi? Alla ricerca delle risposte e del suo “tempo perduto”, Canessa non concederà sconti né indulgenze, neppure a se stesso e alla bella giornalista che saprà aprire una breccia nel suo cuore malandato.
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Dettagli

2017
2 febbraio 2017
416 p., Rilegato
9788817092128
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Indice

Le prime pagine del romanzo

Prima di tutto sentiva, più che vedere, la pistola che impugnava. Non era un sogno. Anzi, era una memoria vivida, capace di squarciare qualsiasi cosa facesse, in qualsiasi momento. Quando arrivava, c’era solo quella. Ed era arrivata, di nuovo.
Come si poteva interrompere il flusso di un sogno con un ricordo reale? Era convinto che succedesse solo a lui. Quando questo accadeva, doveva sedersi o appoggiarsi da qualche parte, calmarsi e far scorrere le immagini, aspettando che terminassero. Per cui anche quella volta si alzò e si sedette sul bordo del materasso. Un lieve russare proveniva dal piano superiore del letto a castello. Aveva ceduto il suo posto all’ultimo arrivato. Gliel’aveva chiesto quasi in ginocchio, quella nullità.
Nel buio, respirò e attese.
Cominciava con il tatto, poi si aggiungeva la vista. Tutto, nel ricordo, era chiaro, anche se la giornata era livida e il colore dominante era il grigio. Avvertiva sul palmo della mano la sensazione ruvida del calcio della Tokarev TT33 nella versione jugoslava, con il caricatore a nove colpi.
Seguendo con gli occhi la canna della pistola e proseguendo davanti a sé, vedeva un uomo che teneva per mano due bambini, un maschio e una femmina. Li fissava, conscio di quello che stava per succedere. Non aveva paura, almeno non per sé. Questo era chiaro. Se allargava lo sguardo vedeva attorno a loro alberi, qualche aiuola, uno slargo con un viavai di persone, più in là la strada e le auto in colonna per il traffico del mattino invernale. Il caos, l’affollamento, la gente, nulla di tutto questo li aveva mai fermati. I bambini, però, erano un fatto nuovo. Avevano deciso di colpire prima che l’uomo li lasciasse a scuola. Perché, non era meglio dopo? Questo era l’unico particolare che non riusciva a mettere a fuoco. Forse perché apparteneva ai giorni precedenti.
Tornò a guardare la pistola. Ma non accadeva nulla. Tutto era fermo. Dipendeva da lui, era lui che doveva sparare per primo, era il capo. L’uomo, nel frattempo, spinse la bambina lontana da sé e quella finì a qualche metro di distanza, il visino stupito, quasi offeso da quel gesto scortese e inaspettato. Il ragazzino non riuscì a spostarlo. Si aggrappava alla sua mano con una forza inaudita, deciso a non abbandonarlo, a restare attaccato a lui. Fu quello a farlo vacillare, la Tokarev in pugno, in attesa dei suoi ordini, fedele, sicura, un’arma che non l’aveva mai deluso. La pistola era lì, immobile tra le sue dita, perché lui guardava il bambino che non mollava la mano del padre. Provò una sensazione netta, quasi una coltellata nella carne, fissando quella scena. Non c’era solo paura negli occhi del ragazzino, ma qualcosa di profondo che andava al di là dell’amore filiale. Era più di una cima lanciata da una barchetta verso una nave venuta in soccorso nel mezzo di una tempesta. Ma anche non ci fosse stato altro, lui si domandò: c’è qualcuno a cui io potrei lanciare la mia cima? Non gli interessava del bambino o dell’uomo, non era pietà o commozione, quella che provava. Gli interessava solo quella domanda su se stesso, talmente violenta da bloccarlo.
Poi i suoi pensieri vennero assordati da uno sparo. Si voltò verso il suo compagno che aveva appena fatto fuoco e questo gli rivolse una smorfia come per dire: che stiamo a fare qui, in mezzo alla strada, le pistole in pugno, la gente che scappa e urla, qualcuno che già sta chiamando la polizia? E allora si mise a sparare anche lui, automaticamente, una, due, tre volte. L’uomo, prima colpito solo a un braccio, crollò a terra trascinando con sé il bambino. Questo si mise a singhiozzare, ma stava bene, compatibilmente con il fatto che era ancora attaccato a suo padre crivellato di proiettili, e sporco del suo sangue. Il compagno si stava avvicinando per il colpo di grazia, quando si udirono delle sirene vicinissime. Allora si voltò verso di lui, fece un sorrisetto osceno, e lo oltrepassò sussurrando: «Tanto è schiattato».
Lui guardò ancora una volta il ragazzino. Poi si sentì tirare via.
Sull’auto, già lontani dal luogo della sparatoria, qualche minuto più tardi, l’altro uomo, con quell’accento napoletano che lui detestava come poche cose al mondo, gli ringhiò addosso: «Ma che cazzo tenevi dint ’a capa, di’, Pino?».
Lui non rispose. Pensava, come gli sarebbe capitato sempre, quasi tutti i giorni, nei trent’anni successivi, a quella mano stretta con tutte le forze, a quel legame. Qualcosa di potente, qualcosa di assoluto. Qualcosa che avrebbe cominciato a provare solo molto dopo, solo nella seconda parte della sua vita, nella strada in discesa che avrebbe finalmente imboccato.
Dedizione, fede.
Ecco, era quello. Avere qualcuno da non abbandonare, da tenere stretto, per cui provare qualcosa di speciale. Dedizione, fede.
Per trent’anni quel ricordo lo aveva lasciato annichilito, al termine della puntuale proiezione nella sua mente (non aggiungeva né ometteva particolari, sarebbe stato un testimone perfetto, se avesse voluto raccontarlo).
Il ricordo, però, anche se si ripresentava con regolarità, non lo turbava più.
Aveva ottenuto le risposte che cercava. Adesso poteva fare quella telefonata.

Valutazioni e recensioni

 Giaggy
Recensioni: 5/5
DA LEGGERE

APPASSIONANTE E SCORREVOLE IL PERSONAGGIO VERAMENTE FAVOLOSO

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Recensioni: 4/5

Un libro intrigante per la storia e soprattutto per il suo personaggio principale, un eroe moderno leale nei confronti di sé stesso e della propria missione, ma disposto a sporcarsi le mani e a fare ciò che deve essere fatto. Un racconto corale, creato intorno a tanti personaggi che sembrano non avere nulla a che fare gli uni con gli altri, salvo poi accorgersi di essere tutti invece legati a filo doppio tra di loro nel tentativo di salvaguardare i propri interessi (alcuni) e ideali (altri). Una rivelazione.

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Recensioni: 5/5

In definitiva: questo non è un romanzo cupo, triste, anzi è brioso e frizzante, alcune scene risentono un po’ dell'influenza di James Boond, e ha un taglio molto cinematografico, anche se le scene di sesso sono un po’ troppe. Tanti sono i temi trattati: l’inimicizia tra fratelli, il lutto, la gelosia, il pentimento, la fede, il perdono. Ma uno su tutti predomina: è il sentimento della vendetta, che, come ci insegna Dumas, stravolge, è attesa perenne e paziente,che, prima o poi, giunge inaspettata. Una lettura pregnante, da ricordare.

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Recensioni: 5/5
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