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L'enigma più grande della civiltà ebraica risiede, paradossalmente, nella sua stessa sopravvivenza a dispetto di esilio, discriminazione e sterminio. Un enigma che il libro di Eisenstadt illumina con forza, in una prospettiva scientifica che diviene anche alta lezione umana e politica: lì dove esorta a pensare l'esperienza storica ebraica come storia di una civiltà, e non solo di un popolo, o di un gruppo religioso, etnico o nazionale. Ricorrendo con leggerezza e maestria allo strumento disciplinare più raffinato della sociologia storica, l'analisi comparativa, Eisenstadt ricostruisce anzitutto le caratteristiche fondamentali della civiltà ebraica nei suoi periodi formativi del Primo e Secondo Tempio e del lungo esilio medievale, per soffermarsi poi diffusamente sul periodo moderno, quando i rapporti tra gli Ebrei e le società «ospiti» mutano radicalmente. Il libro svela così i differenti percorsi di «incorporazione» degli Ebrei non solo nelle società europee, ma anche in quella americana: una «società ideologica di coloni» per tanti versi simile a quella di Israele, a cui sono dedicate pagine illuminanti. Eisenstadt analizza infine sia i movimenti nazionali ebraici, e in particolare quello sionista, sia le caratteristiche strutturali dell'odierna società israeliana e della sua cultura politica, dando ragione della cruciale eterogeneità della vita ebraica moderna, sostenuta dalla «esistenza simultanea di tutti questi modelli diversi di esperienza storica». Sta in ciò, come scrive David Meghnagi nella prefazione, una delle ragioni principali «del fascino dell'Ebraismo e dell'inquietudine che suscita per il suo essere allo stesso tempo dentro e fuori, lontano e prossimo, così da rappresentare nell'immaginario collettivo occidentale e cristiano un fantasma delle origini».
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