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Anno edizione: 2014
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ottimo album
Nel 1997 Damon Albarn e soci passano definitivamente dal Brit-pop da podio nelle chart al rock alternativo d’avanguardia apprezzato da un pubblico di nicchia cavilloso, rinunciando nobilmente alle laute vendite di dischi per ottenere, però, l’arduo applauso della critica. «Siamo un gruppo strano, irregolare, inadatto per gli stadi. Potremmo anche farcela, ma non è il posto per noi. Gli stadi sono fatti per giocarci a calcio, non per la musica, e così deve essere» chiarisce Albarn, e se i Blur hanno perduto “orde da ola” dalla pubblicazione di questo album “senza titolo” in avanti hanno conquistato, come detto, platee di riservati intellettuali (conservando anche un po’ di fans datati che, anziché ripiegare negli antagonisti Oasis e in band che tuttora tengono vivo il Brit-pop, hanno preferito accogliere le nuove sonorità dei Blur) nonché la stima della maggior parte dei giovani gruppi del nuovo millennio che ritengono i Blur, più dei rivali Oasis (una competizione forse studiata a tavolino), una delle fonti migliori da cui attingere per realizzare musica inedita e non c’è nulla di male in questo. Tutti gli artisti hanno dei modelli, delle icone a cui fare riferimento per creare le proprie opere, compresi gli stessi Blur. La produzione degli ex Seymour (il nome iniziale della band prima di stipulare un contratto discografico) è in fondo un mix di incredibile genialità e frammenti sporadici emulanti il passato, ma il tutto è gestito con grande intelligenza ed attenzione per la qualità e la creatività, che è poi ciò che fa la differenza, ciò che rende grande una band: riecheggiare va bene, purché lo si faccia con originalità. A tal proposito tra le 14 tracce di questo cd vanno segnalate “Song 2” con dei riferimenti (non plagi) a Sonic Youth e Nirvana (è concretamente un omaggio all’imperituro Kurt Cobain), “M.O.R.” a David Bowie, “Chinese Bombs” a Motörhead e l’eccellente “Death of a Party” agli Smiths, che si potrebbe ribattezzare la “Panic” degli anni Novanta, essendo un’invettiva contro party, discoteche, banale musica commerciale e frivolezza in genere. Un “orecchio” di riguardo merita il brano “You’re so great”, che vede al microfono eccezionalmente Graham Coxon. È l’unica parentesi delicata e radiosa dell’intero album, che, nonostante presenti atmosfere un po’ grevi, riesce straordinariamente a risultare di una “freddezza ardente”. Quest’album arriva al cuore, accende, ghermisce. Possiede una maturità artistica davvero sbalorditiva. Comunque c’è da dire che tutto quello che è stato pubblicato dopo questo lavoro (e per la precisione fino a “Think Tank” del 2003, anno della prolungata pausa) è da promuovere con alti voti, compresi i progetti indipendenti del frontman, sia da solista che come membro dei Gorillaz e dei The Good, the Bad & the Queen, un quartetto che include anche Paul Simonon, ex membro dei Clash. È da escludere solo l’episodio della reunion di quest’anno con un singolo dal sapore commerciale ed il retrogusto acre di un’antica armonia che tra i membri della band ormai più non c’è, né creativa né spirituale (forse quest’ultima non c’è mai stata, almeno così sembra stando alle dichiarazioni recenti di Albarn sul malessere che ha attanagliato il gruppo da sempre a causa delle dipendenze da alcol e droga, una realtà coerente all’immagine nosocomiale sulla copertina di questo cd). Per quanto riguarda invece quello che c’è stato prima del ‘97, be’, è senz’altro da conoscere, da apprezzare (“Girls & Boys” o “Country House” sono indubbiamente canzoni pregevoli) ma in tutta onestà non è che sia poi tanto da ammirare fanaticamente, da ritenere che sia di grande innovazione e da catalogare tra le opere imperdibili come si può fare con “Untitled”, “13” e “Think Tank”.
Recensioni
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