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Retrospettivamente, con le consuete distanze temporali che aumentano la capacità di focalizzare aspetti prima meno rilevanti, risulta ormai chiaro come di un'opera controversa non si possa parlare dagli estremi angoli prospettici empatico/entusiastico o all'opposto dell'assoluta negatività. Non sfugge a questa regola basilare nemmeno il (più o meno) controverso "Wild Mood Swings", ora in maggiore trasparenza osservabile. Due punti vanno chiariti 1. i Cure del 1996 non sono gli Oasis di "Morning Glory", né i Pumpkins di "Gish", con quest'album la band inglese giunge al 12° album di inediti, e a quasi 18 anni di carriera (e come Easy Cure superano tranquillamente la ventina): i metri di giudizio di un'opera annoverano criteri particolari e parametri universali: la contestualizzazione temporale e biografica è imprescindibile, a differenza delle due citate (ottime) bands non sono esordienti, il talento di Robert Smith e dei suoi musicisti ha ampiamente superato la prova del tempo, e da questo si deve partire per una più serena valutazione. 2. non stiamo parlando di una cult-band per pochi appassionati, ma di un gruppo dal successo stellare, e quest'album è già stato giudicato dal pubblico "il peggiore" della loro carriera. Tuttavia, una volta tanto pubblico e critica sono in parte discordanti, in quanto la seconda ha espresso due linee di giudizio differenti: bocciatura senza appello da un lato o più ottimistica valorizzazione degli elementi innovativi e talvolta originali, dall'altro. Opportuno fare una specie di "metanalisi critica", cogliere cioè i punti nevralgici di queste musiche attraverso un confronto critico tra le varie posizioni. Sul primo singolo "The 13th", da molti giudicato (sbrigativamente?) come "il peggior singolo della loro carriera", cito le parole del recensore A. Campo: “bisogna riconoscere che <The 13th> è un nitido gioiellino pop: trombe alla Tijuana Brass, pianoforte sbilenco e il consueto falsetto amabile/detestabile di Robert Smith, che fanno riaffiorare il remoto ricordo di <Caterpillar>". Il giornalista coglie aspetti davvero interessanti. Che permettono di introdurre il discorso più generale sull'album: - esce a quattro anni di distanza da "Wish", disco "guitar-driven", spaziale e liquido, stilisticamente omogeneo e sviluppato lungo un'affascinante gradazione atmosferica, in un certo senso un alter-ego di "Disintegration", basato invece sulle splendide ed immaginifiche suggestioni eteree create dalle tastiere. - a differenza dei due citati lavori, questo sembra quasi "schizofrenicamente" eterogeneo sotto il profilo stilistico, e il mixaggio dei singoli brani (ciascuno affidato ad un diverso produttore , tra cui spicca Adrian Sherwood (al lavoro su "Strange Attraction") sembra accentuare negativamene questa impressione; anche se si parla di "most colourful album" ed i Cure sono al vertiche del successo, ciò non basta a placare le perplessità suscitate da un lavoro oltre che bizzarramente eclettico, anche di qualità oscillante. - le "difficult circumstances" citate da Smith delineano un contesto sicuramente travagliato, da un lato il successo raggiunto ben più tardi dei colleghi Depeche Mode e U2 (che già a metà degli '80 riempivano arene da 80000 spettatori) ha sicuramente "sbloccato" una nuova fase creativa di Robert Smith, dall'altro la spola tra studi di incisione, mixaggio, mastering e il tribunale per la fuoriuscita di Lawrence "Lol" Tolhurst e causa legale per i diritti sulle canzoni sicuramente non ha giovato all'atmosfera generale. Il risultato è che questa collezione di nuove canzoni è proprio per la sua disomogeneità difficile da racchiudere in una definizione, difficile cogliere parallelismi con lavori precedenti. L'inizio è buono, e promette bene per l'intero album: "Want", riecheggiante "To Wish Impossibile Things" e "From The Edge of The Deep Green Sea", cadenzato, potente e assolutamente convincente, sembra (e forse è) un vero outtake di "Wish", la canzone che più d tutte somiglia alle cadenze ipnotiche e alle atmosfere maggiormente dilatate e psichedeliche dell'album precedente. La successiva "Club America", invece, è in assoluto l'episodio più fragoroso e distorto dell'intero album: ancora psichedelia ma di impronta differente, il modello di ispirazione sembrano The Jesus And Mary Chain, e il brano concilia il profilo rock di “Never Enough” e post-punk di “Cut”; ma è con la terza "This Is a Lie", letteralmente paralizzante per l'impatto emotivo, che si raggiunge il vertice; ci si rende conto di essere in contatto con qualcosa di assolutamente inusitato per la band di Crawley: chansonnerie quasi memore di Jacques Brel, costruita con uno splendido intreccio armonico di chitarre acustiche e archi, che curiosamente poggia su un appena percettibile tappeto ritmico elettronico, dà letteralmente i brividi, emoziona con un'intensità che raramente si era raggiunta, anche perché dell'intero repertorio è senza dubbio la più atipica canzone dei Cure (impensabile che Smith & Co avessero potuto scrivere un pezzo simile all'epoca di "The Head On The Door" o magari di "Pornography") la sorpresa suscitata da un simile gioiello di rara bellezza neoclassica dovrebbe servire a comprendere l'evoluzione che la musica dei Cure ha in questi anni subito. Di parallelismi difficili ma non impossibili si può, comunque parlare: "Numb", avvolta in morbide e soffuse spire chitarristiche psichedeliche assieme alla citata "The 13th", come analogamente “Bare” riporta alle immagini sfocate, e ai contorni frammentati avvolti nelle nebbie, mentre "Jupiter Crash", dolcemente cadenzata e indugiante, da un lato analogamente a "Want" si pone in continuità stilistica e poetica con il precedente lavoro, dall'altro sposta il punto di paragone su un altro, eclettico album, il maestoso, doppio "Kiss album" del 1987, ambizioso tentativo di sintesi tra sperimentalismo rock, psichedelia e pop "colourful". Sulla stessa falsariga si pongono "Return" (divertissement pop), "Trap" (algida e lontana), e "Strange Attraction", altro flirt con certa elettronica "naive" e jazz-funk esotico. Laddove, come già fatto notare, "Gone!" sembra un ibrido tra "The Lovecats" e "The Walk" , il resto dell'album scorre come un oscillante, ma tutto sommato gradevole "riempitivo". Si diceva della fluidità creativa che caratterizza questo periodo di Robert Smith, documentata dall'elevato numero di B-sides composte (rintracciabili nei singoli, o nel box “Join The Dots”), quasi tutte di qualità notevole, se non superiore ai brani scelti per l'album. Innanzitutto la strepitosa "It Used To Be Me", B-side di "The 13th": percussiva, psichedelica, scivolosa, dona un esempio della maestria vocale di Robert Smith e del suo talento melodico. "Adonais", sfuggente e ritmata, si muove entro coordinate simili, "Ocean" tenera ed intensa ballad malinconica, contemplativa e suggestiva. "Home", retro di "Mint Car" ha un'apertura arminica imponente ma poi cambia repentinamente ritmo e sembra una versione aggiornata di "Inbetween Days". In conclusione, verrebbe da chiedersi, se quest'album fosse stato pubblicato in versione "double disc" o con una differente selezione dei brani, forse il taglio complessivo sarebbe stato diverso, e i giudizi di pubblico e critica forse più vicini. Ma ciononostante, per i pezzi pregiati inclusi nell'album, all'interno di un contesto a tratti meno convincente, mi sento tranquillamente di poter dire che i Cure non hanno affatto smarrito il talento, forse dovrebbero incanalarlo in opere strutturate in modo più organizzato e con un'architettura meno confusa, come il precedente lavoro, senza cadere nella probabile tentazione del remake di un secondo, impossibile "Kiss album”. "Man mano che invecchiamo, diventiamo un po' più saggi e un po' più stolti, allo stesso tempo". La Rochelle Faucault
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