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Anno edizione: 2019
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Per nulla avvincente povera di azione con troppi personaggi difficile da memorizzare. Non l’ho finito di leggere perché stava diventando noioso
Nella melting pot che era la New York del 1864, Joe “Giuseppe” Petrosino è il leggendario (ma realmente esistito) sergente investigativo della Polizia che era entrato nelle grazie dell’assessore alla Polizia di New York Teddy Roosevelt prima che questi diventasse Presidente. “Joe” era detto “Dago” poiché originario di Paluda e quindi dagoes come si indicavano allora in maniera dispregiativa tutti gli italiani. Caratteristiche particolari: collo taurino e braccia forzute, baffi all’italiana, “derby hat” (la bombetta) sulla testa e scarpe dalle suole rialzate per sembrare più alto. Come Sherlock Holmes, quando torna a casa la sera, se non è troppo stanco, si rilassa suonando con il violino le più note arie della lirica italiana (non a caso Caruso è il suo idolo). Nella melting pot che era la New York del 1864, Joe “Giuseppe” Petrosino è il leggendario (ma realmente esistito) sergente investigativo della Polizia che era entrato nelle grazie dell’assessore alla Polizia di New York Teddy Roosevelt prima che questi diventasse Presidente. “Joe” era detto “Dago” poiché originario di Paluda e quindi dagoes come si indicavano allora in maniera dispregiativa tutti gli italiani. Caratteristiche particolari: collo taurino e braccia forzute, baffi all’italiana, “derby hat” (la bombetta) sulla testa e scarpe dalle suole rialzate per sembrare più alto. Come Sherlock Holmes, quando torna a casa la sera, se non è troppo stanco, si rilassa suonando con il violino le più note arie della lirica italiana (non a caso Caruso è il suo idolo). Petrosino non è simpatico a tutti, nemmeno ad alcuni dei suoi colleghi, vuoi per invidia vuoi per un latente razzismo verso i miseri “mangiaspaghetti” di cui è fiero rappresentante. Non è simpatico all’ispettore Max Schmitberger, ebreo tanto magro e lungo da essere soprannominato “la Scopa”, il quale, avvertito del cadavere nel barile, fiuta puzza di italiano e affida l’indagine a Petrosino. Non fa simpatia al capo dell’Investigativa George “il Presuntuoso” o “Petto in fuori” McClusky, più attento a fare buona impressione alla stampa (a quell’epoca a Little Italy si leggeva “Il progresso italo-americano”) che non a risolvere il caso. Ma come Holmes aveva Watson, Petrosino può contare su una fedele e originale “spalla”: l’agente di polizia Maurice Bonnoil, uno dei cosiddetti plainclothesman (agente con licenza di indossare abiti civili) per il quale Salvo Toscano inventa una geniale quanto simpatica parlata Italo-franco-irlandese. In alcuni capitoli l’indagine viene portata avanti da entrambi i detective separatamente ma come fossero una persona sola, e questo ci fa desiderare maggiori scene insieme (come quella alla Morgue per il riconoscimento del cadavere) dove il serioso Petrosino può dettare ordini ma al contempo lasciarsi andare a sincere risate. L’altra storyline che finisce per intrecciarsi con l’indagine principale è quella condotta dall’ufficio del Tesoro a Wall Street dove il capo dei servizi segreti di New York, lo scrupoloso William Flynn, sta alle calcagne di una banda siciliana di falsari di banconote. Ed è così che, quando i due gruppi investigativi si uniscono, si restringe il cerchio intorno alla “cupola” della Mano Nera: Giuseppe “don Piddu” o “Artiglio” (perché gli manca il mignolo) Morello, suo cognato Ignazio “the Wolf” Lupo, il pasticciere Pietro Inzerillo e i loro scagnozzi...
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