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Alla fine del Trecento, Torino è una città provata dalla guerra e dalla recessione; la sua popolazione è in calo. La crisi radicalizza i conflitti sociali e politici; nobili e popolari, dopo aver raggiunto un accordo per spartirsi il governo della città, tornano a scontrarsi, mentre la ricchezza di mercanti e imprenditori non tiene il passo con una ricchezza nobiliare fondata quasi esclusivamente sulla terra. Ciò non significa che l’abitato sia ridotto in condizioni semirurali: la vecchia città augustea, ancor chiusa entro il quadrato delle mura e delle torri romane, dispiega già allora una precoce vocazione burocratica, sede com’è di ben tre amministrazioni, quelle del comune, del vicario sabaudo e del vescovo. Anche i traffici, nonostante la crisi, conservano uno spazio; accanto ai mercanti che falliscono, altri, di spezie o di panni, fanno fortuna, a più riprese si convogliano energie nel tentativo di rivitalizzare l’industria tessile, osti e macellai si arricchiscono. Ma nel complesso il volume d’affari declina rispetto ai livelli raggiunti alla metà del Trecento; mentre più solida che mai appare l’egemonia nobiliare, tanto da indurre i popolari a riunirsi in una Società, dedicata a san Giovanni Battista, per proteggersi dalla prepotenza dei magnati. Occorrerà che la crisi si allenti, che il passaggio sotto il governo del duca di Savoia riporti la pace, che la popolazione riprenda a crescere, perché la spaccatura fra oligarchia nobiliare e oligarchia popolare si ricomponga, perché la Società del Popolo sia sciolta senza rimpianti e perché le famiglie superstiti dell’uno e dell’altro gruppo si uniscano nel patriziato che governerà la città sotto l’Antico Regime.
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