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Nel 1930, Cecchi insegnava in California. Pensò di scendere verso il Messico. Fu un viaggio infero, anche se il viaggiatore tentava di nasconderlo, con la sua urbanità ironica e nemica dell’enfasi. Ma si accorse subito che nessun sapido detto toscano avrebbe potuto arginare l’invadenza delle visioni. A Hollywood, il suo sguardo si sofferma su Buster Keaton, «che cammina sbadato, inciampando nei detriti di un mondo capovolto». E subito cerca un allevamento di alligatori, centinaia di creature catafratte, di ogni dimensione, che guardano il visitatore «con l’occhio dell’ergastolano». Poi si spalanca il Messico: chiuso nella sua maschera di ossidiana, sotto un cielo che «preme come una campana di vetro opaco» e dà alle cose «una virulenta luminosità d’agonia», la realtà più impenetrabile, la più insolente per un artefice della prosa devoto al nitore della Firenze rinascimentale. Una realtà che al suo centro, nelle piramidi del Sole, sembra offrire soltanto «diavoli, infamità e lutti». Eppure Cecchi, dietro le quinte di se stesso, non aspettava, non cercava altro che questo. E il risultato è Messico, «a rigore il più bel libro di Cecchi» (Gianfranco Contini).
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