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Autobiografia in do minore. Racconto di scoordinata sopravvivenza - Giuseppe Bonaviri - copertina
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Autobiografia in do minore. Racconto di scoordinata sopravvivenza
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Descrizione


"Evviva l'altopiano di Camuti che mi vide bambino. Cominciai a scrivere poesie all'età di nove anni, adeguandomi alle consuetudini della famiglia e del mio paese, Mineo, dove gli abitanti in maggioranza erano poeti vernacoli, in gran parte analfabeti, contadini poveri, raccoglitori d'ulive, venditori d'acqua, pietraroli, calzolai, barbieri, sarti, guardiani di buoi, o caprai, e camposantari e artigiani che, per il loro mestiere, erano portati a fare delle considerazioni sulla fugacità di ogni cosa. Ma la verità è una: debbo fare tutto da me, non ho un gatto, o una formica che mi aiutano. E la mia solitudine, che amministro e cerco di superare da solo, mi spunta come ombra sempre davanti. Ma in questo c'è un grande mio gioco fra narcisistico e retorico e infantile".
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Dettagli

2006
10 luglio 2006
136 p., ill. , Brossura
9788881768448

Valutazioni e recensioni

Renzo Montagnoli
Recensioni: 5/5

“Evviva l’altopiano di Camuti che mi vide bambino. Cominciai a scrivere poesie all’età di nove anni, adeguandomi alle consuetudini della famiglia e del mio paese, Mineo, dove gli abitanti in maggioranza erano poeti vernacoli, in gran parte analfabeti, contadini poveri, raccoglitori d’ulive, venditori d’acqua, pietraroli, calzolai, barbieri, sarti, guardiani di buoi, o caprai, e camposantari e artigiani che, per il loro mestiere, erano portati a fare delle considerazioni sulla fugacità di ogni cosa. Ma la verità è una: debbo fare tutto da me, non ho un gatto, o una formica che mi aiutano. E la mia solitudine, che amministro e cerco di superare da solo, mi spunta come ombra sempre davanti. Ma in questo c’è un grande mio gioco fra narcisistico e retorico e infantile.” .-.-.-.- Che cosa può spingere un uomo a scrivere la propria autobiografia? I motivi possono essere diversi, ma soprattutto due, ciascuno dei quali non esclude l’altro: la necessità di ripensare alla propria vita, facendo emergere la memoria del passato, oppure lasciare una traccia della propria esistenza, affinché altri sappiano, consentendo in tal modo di limitare gli effetti della propria morte con il ricordo di sé. Ora credo che Bonaviri, giunto a una certa età in cui più inevitabilmente si pensa a quell’ultimo passo, abbia inteso soprattutto guardare all’indietro, lui che ormai viveva da tantissimi anni a Frosinone, lontano da Mineo, dal quel paese che nell’arco delle sue narrazioni ha assunto sempre più la simbologia di un paradiso lasciato e non perduto. Che abbia scritto questo libro soprattutto per se stesso trova un’indiretta conferma nelle poche annotazioni relative agli anni più recenti, mentre lo svolgimento del tema è focalizzato in un tempo molto più lontano, quello della giovinezza, il cui ricordo resta vivo, anche se velato da una vena di malinconia, del tutto naturale in un anziano. L’esercizio della memoria, attuato in una forma che sembra quella della narrazione orale, con ritorni, rimandi, anche alcune ripetizioni, si innesta nel presente solo con annotazioni per la fatica, legata all’età, al caldo, oppure per un pessimismo esistenziale (“La vita è tutta un giro di nascite e morti; vale la pena viverla?”) proprio dell’età, di chi non potendo rivolgersi al futuro guarda al passato. E’ anche il momento di confessioni, in particolare una, forse prima mai enunciata neppure a se stesso, e che offre mirabilmente la misura della condanna di uno scrittore, autentico, perché nello scrivere per sé scrive per gli altri e non viceversa, visionario, ma pragmatico, perché la sua fantasia mostra quale è la vera realtà, naturalistico, poiché consapevole di essere solo un piccolo tassello del mosaico della vita: “in questa opaca terra, scrivere per me, oltre che maledizione ereditaria, è stato solo salvezza dalla solitudine in cui ho vissuto e vivo”. L’uomo è sempre solo, ma uno scrittore come lui ancora di più, ed è quella solitudine appena lenita dagli affetti familiari che spinge a cercare il bandolo di una matassa, quale è l’esistenza, anche se consapevoli che non si riuscirà mai a trovare. Ho scritto prima che questo libro sembra più la registrazione di un racconto orale, come se il lettore si trovasse davanti allo scrittore che parla di quel che è stata la sua vita, e come capita in questi casi non seguendo un preciso filo logico, se non all’inizio, quando molto opportunamente ci dice del suo albero genealogico, o meglio dei suoi due alberi, quello dell’ulivo per parte materna e quello del mandorlo per l’ascendenza paterna. I componenti delle famiglie, nella seconda metà del 1800 e all’incirca fino alla fine della seconda guerra mondiale, erano assai numerosi, e quindi è un fiume in piena di bisnonni, di zii e di cugini, a ognuno dei quali Bonaviri cerca di riservare, per quel che rammenta, una piccola storia o almeno un cenno. In ogni caso il centro dell’attenzione è sempre Mineo, con l’altopiano di Camuti, e non mancano anche quelle invenzioni di prosa poetica che sono una delle caratteristiche più esaltanti dello scrittore (“I tuoni bofonchiavano, fuori” della porta di casa stangata, “e rimbalzavano, schiantandosi, di valle in valle”.), parole che si fanno immagini e di una forza tale da restare impresse nella mente anche da chi mai è stato in quel luogo. Mineo, il paese dei poeti, un rifugio sicuro a cui pensare nei momenti più bui, durante i periodi di depressione ansiosa, frutto sì di una predisposizione, ma anche di un lungo periodo di duro lavoro all’ospedale; queste case arroccate diventano così un mito, un sorta di paradiso perduto, ma recuperabile, anche se ciò che appare invece irrecuperabile è il periodo spensierato di quella giovinezza in cui si viveva il presente, si nutrivano speranze per il futuro, senza pensare al passato. Non c’è tristezza, tuttavia, perché la vita è così e anzi Bonaviri innesta anche episodi curiosi e ilari, soprattutto relativamente al periodo trascorso a Catania quando studiava al Liceo e all’Università. C’erano la guerra e pochi soldi, mancavano le case e la ricerca di una pensione dove alloggiare era quasi una Via Crucis, ma si era ancora giovani, pieni di speranze e si aveva la forza e il coraggio di ridere sulle proprie miserie. Poi, mano a mano che l’età aumenta, che si entra in quel girone quasi infernale che è la società costituita, in cui ognuno è chiamato a recitare il proprio ruolo, le cose cambiano e così anche Giuseppe Bonaviri diventa il dottor Bonaviri, che nel parlare dei parenti scomparsi ne scrive quasi le cause della morte, anzi sembrano veri e propri referti, con associazioni di alcuni decessi tese anche a dimostrare che certe malattie, come l’ipertensione, sono proprie di un codice genetico, che si trasmette da padre in figlio. Il Bonaviri medico è quello che ha lasciato Mineo, il Bonaviri scrittore è quello che con il cuore è rimasto a Mineo. Autobiografia in do minore è un canto all’età d’oro della giovinezza ed è semplicemente un capolavoro.

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Giuseppe Bonaviri

(Mineo, Catania, 1924 - Frosinone 2009) scrittore italiano. Medico cardiologo, ha scritto numerosi romanzi in cui rappresenta il piccolo mondo paesano della sua terra, cogliendo la dimensione magica della natura: Il sarto della stradalunga (1954), Il fiume di pietra (1964), Notti sull’altura (1971), L’enorme tempo (1976), Novelle saracene (1980), L’incominciamento (1983), È un rosseggiare di peschi e d’albicocchi (1986), Silvina (1997), Vicolo blu (2004), L’incredibile storia di un cranio (2006). Ha anche pubblicato raccolte di poesie: Il dire celeste (1976), O corpo sospiroso (1982), L’asprura (1986), I cavalli lunari (2004). Del 2006 è Autobiografia in do minore. Racconto di scoordinata sopravvivenza.

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