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Ho esitato a lungo prima di decidermi a commentare questa "cronaca interiore" che io mi azzarderei a definire, forse più esattamente, come "analisi della propria vita interiore" da parte dello stesso autore. Cosa potrei dire, infatti, che l'autore non abbia già magistralmente espresso o lasciato trasparire nelle sue accurate descrizioni o nei suoi frequentissimi soliloqui, spesso a titolo di ipotesi? Penso che i pochi avvenimenti concreti di questo romanzo anomalo siano solo uno spunto (intento già manifestato chiaramente nel sottotitolo) per un'indagine sui conflitti interiori del personaggio. Lo stile dell'autore è stupefacente: richiama il Manzoni per la padronanza della lingua, la ricchezza lessicale, la descrizione dettagliata e immaginifica di luoghi, pensieri ed emozioni, la capacità espressiva. Ma nel Manzoni domina un equilibrio sereno, quasi paternalistico e paziente, un'incrollabile fiducia cristiana nella Provvidenza; qui si intravede, al contrario, una ricerca affannosa, contraddittoria negli impulsi e conflittuale nelle decisioni, un doloroso agnosticismo non rassegnato, anzi combattivo e fremente. Non si tratta solo di una ricerca intellettuale, anzi prevale una ricerca emotiva sempre confusa nelle sue pulsioni ma razionale nelle infinite ipotesi alternative con cui lui cerca inutilmente di renderla comprensibile (a sé stesso) e soprattutto risolutiva. Si sente un'eco della tragedia greca, si intravedono i conflitti esistenziali di Kafka (la figura ingombrante del padre che egli ammira, ma che sente come frustrante) pur non presentando i suoi toni cupi e angoscianti. Ma, soprattutto, quest'opera può accostarsi ai monologhi di Shakespeare, sia per i contenuti esistenziali, ricchi di interrogativi senza risposta, sia per lo stile dei soliloqui: frammentario, indeciso, dalla cadenza convulsa, talvolta quasi ritmica, che a tratti esula dalla prosa per sfociare nella poesia espressionista (frasi brevi, ricchi di aggettivi e di avverbi, significativi ma mai enfatici; inversioni del predicato col complemento o col soggetto): è l'anima che parla, non il cervello. Eppure essa non si esprime solamente tramite introspezioni spirituali o descrizioni coreografiche esteticamente suggestive e poetiche; ma si sente una travagliata ricerca più filosofica che psicologica, si pongono problematiche esistenziali, esprimendole alla maniera sottile e convulsa di Shakespeare, si denunciano i due principali conflitti interiori del protagonista: Ia sua visione della donna e quella di sé stesso. Al personaggio (oserei dire all'autore) la donna appare come un Giano bifronte: da una parte subdola, manipolatrice, tendenzialmente dominatrice, adescatrice e pericolosa come le sirene o la Circe di Ulisse; dall'altra, una creatura angelica, dolce, tenera, armoniosa, graziosa, fragile e spaurita, seppure seducente e sensuale. Normalmente l'uomo non attribuisce le due facce a una stessa persona, ma Renato sì. Ed è così che lui vede Ifigenia, Giulia e le altre donne che appaiono nel romanzo. Questa visione duplice e angosciosamente inconciliabile, rende Renato indeciso, timoroso e ossessionato da una ricerca confusa della vera essenza della femminilità, del suo modello primordiale ed eterno. Questa ricerca irrinunciabile non gli impedisce, però, di essere "uomo di mondo" (ma non donnaiolo e farfallone come si potrebbe dedurre da una frase di Alessandro: "...porta le sue emozioni al massimo e poi le brucia e passa avanti alla ricerca di altro"), con diverse esperienze , momentaneamente appaganti, ma che non sono mai servite a decifrare la sua visione e le sue aspettative, se non tramite molteplici e “strampalate” ipotesi mai risolutive. Non sta a me descrivere la psicologia di Renato: l'autore l'ha già descritta in una misura particolarmente acuta e dettagliata. Posso solo aggiungere che intravedo un bisogno d’amore irrisolto, una ricerca incessante e irrinunciabile di certezze e valori eterni e assoluti, una ricerca di Infinito come compensazione dell'invisibilità di Dio, del cui Amore la donna si presenta come un indecifrabile riflesso. Renato è troppo sensibile e profondo perché possa comunicare ad altri le sue emozioni, le sue esigenze, i suoi dubbi e sperare in una loro piena condivisione emotiva e razionale. La sua eccezionale attitudine all’empatia (forse accompagnata, secondo i casi, da “simpatia”, o semplice commiserazione o avversione) lo porta a immedesimarsi in persone, animali e perfino oggetti. Ed è grazie alla sua immedesimazione nella psiche femminile, che riesce a evocare e descrivere la suggestione prodotta dal corpo maschile (gambe lunghe, agili, nervose scattanti, movimenti decisi, elastici, potenti, impetuosi) e le sensazioni carnali e spirituali di una donna. Nella sua sensibilità convivono, in anomala simbiosi, l’amor sacro e quello profano: da una parte una sensualità forte, talvolta perfino sgradevole (nonostante il sapiente e garbato understatement cui fa ricorso); dall’altra la tenerezza e delicatezza di certe notazioni riguardanti il corpo femminile e le sue movenze armoniose, nonché la capacità di scavare nel fango e scoprire l’innocenza di un fiore. Si potrebbe definire l’autore come un esploratore dell’anima, un esploratore avido, minuzioso nella sua ricerca senza fine e senza conclusioni definitive, ma, nonostante ciò, inarrestabile. La stessa incompiutezza irrequieta e contraddittoria l’autore la riversa anche nei complessi personaggi di Giulia e Ifigenia. In realtà vedo l’autore simile a un infaticabile rullo compressore, un uomo inquieto, spesso insoddisfatto ma combattivo, irruento e passionale, uno che lancia continue sfide a sé stesso, ed esplora l’anima di persone, animali e cose proprio “senza sapere perché”. Si tratta, in conclusione, di un'opera di eccezionale livello intellettuale e poetico, nonché di rigorosa e stupefacente analisi di pensieri ed emozioni; una magistrale manifestazione di talento letterario e filosofico. Due o tre imprecisioni dimostrano soltanto che "Quandoque bonus dormitat Homerus". Salvatore Messina
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