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In un periodo storico come l’attuale in cui gli uomini sembrano usciti di senno, sbraitano, cercano di soverchiarsi, rispolverano antiche ideologie come il fascismo e il nazismo per alimentare quello che sembra l’unico scopo di una vita priva di valori, vale a dire l’odio, pescare nel mare delle pubblicazioni che caratterizzano l’editoria un libro che riproponga un elevato senso di umanità, che sappia parlare al cuore e alla mente in modo semplice, ma convincente, è sempre più un’impresa. Perle rare potrebbero essere definiti questi testi che non hanno forse ambizioni di larga diffusione, ma che sono pur tuttavia di grande e ineccepibile pregio. Prima ho avuto la fortuna di leggere Dal fondo, di Franca Canapini, un’autobiografia dei primi dieci anni di vita dell’autore, ma anche lo spaccato di un paese che cercava di risollevarsi dalle rovine della guerra, che sperava e credeva in un futuro migliore, poi, più di recente, Fiorella Borin, narratrice assai nota per i suoi romanzi storici, mi ha fatto avere I ragazzi del ciliegio, un volume corposo da leggere con attenzione e che riserva più di un motivo di autentica commozione. L’opera, in gran parte basata su carteggi e diari del padre dell’autrice scritti fra il 1942 e il 1945 in Russia e a Roma, è la storia di alcuni ragazzi che amano trascorrere i giorni tristi della Grande guerra all’ombra di un ciliegio ed è uno spaccato della vita in Italia dalla fine di quel conflitto fino ai mesi immediatamente successivi all’aprile 1945, con l’eccezione di un capitolo riportante nel settembre 2014 la scoperta dell’autore di una lettera del lontano 20 dicembre 1963 che accompagna i precitati carteggi e diari, ma che è anche un’illuminante riflessione sull’inutile crudeltà della guerra. Si tratta certamente di un romanzo storico, ma è anche una preziosa fonte storica per capire con immediatezza cosa sia stato il fascismo, come sia potuta accadere la disfatta dell’Armata italiana in Russia e le opposte ragioni di chi ha scelto di stare da una parte piuttosto che dall’altra dopo l’8 settembre 1943. In quelle pagine non c’è spazio per roboanti eroi, c’è solo un dolore intimo che toglie il respiro, che non solo fa temere la morte, ma che rende impossibile la vita. Eppure, per quanto di idee diverse, fra i ragazzi continua l’amicizia, una solidarietà che si spezzerà solo con le tragedie della guerra, con la morte che colpirà alcuni di loro. Sarebbe difficile fare un riassunto dell’opera, tanto è intensa, ma in ogni caso non è mia abitudine fornire troppe anticipazioni, così influenzando magari negativamente il lettore; è per questo motivo che intendo solo sottolineare la commozione che non poche pagine vibranti provocano nel lettore, anche perché, se uno si ferma un momento a pensare, si rende conto che non sono invenzioni, che quella gente che tanto ha sofferto e che in parte è anche morta è esistita veramente. Il rischio di scivolare in un romanzo strappalacrime c’era, ma Fiorella Borin ha saputo raccontare episodi tristissimi con uno sguardo di pietà che sazia il cuore di chi legge e che alla fine magari non può trattenere qualche lacrima, ma che è consapevole che è appena stato il destinatario di un grande messaggio di umanità, in cui non c’è spazio per guerre e violenze, ma dove il sentimento dell’amicizia raggiunge il suo punto più alto in una forma di amore sublime che da solo può cancellare le brutture del mondo. Da leggere e rileggere, lo merita ampiamente.
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