Ottanta lettere
“Lo desiderino o meno, lo sappiano o no, quelli che raccontano, coloro i quali inventano storie, diffondono insoddisfazione, mostrando che il mondo è mal fatto e la vira di fantasia è più ricca della routine quotidiana” Mario Vargas Llosa Mitia Chiarin sembra saperlo bene. E mette questa ferocia nei suoi racconti. Ottanta lettere racconta la provincia grassa. Racconta le persone abbastanza ricche da vedere il loro sogno infrangersi. E i sogni, quando si infrangono, fanno molto rumore. E leggendo questo libro si sente questo fragore, delicato e dolentissimo. Sono, in fondo, biografie, pennellate con brutale realismo che ci presentano un contemporaneissimo male di vivere, appeso ad una notevole quantità di certezze, fallaci. Ci stanno le storie di una infanzia che si perde negli anni ’70 e i problemi della fine del mese e della crisi economica che fanno molto XXI secolo, senza autocompiacimento, un racconto piano, verista, senza pretese. “Questi racconti di Mitia Chiarin, così singolari (come le storie della Kristof che cita e che sembra amare), ironici e spiazzanti (come i racconti di una Grace Paley), così acidi a prima vista, da leggere ascoltando e omaggiando Amy Winehouse, ma così carsicamente teneri (nel senso che sotto la dura terra di parole antiretoriche custodiscono amore e pietà, gesto raro e apprezzabile in tempi di sentimenti sguaiati e insinceri), lavorano sulla realtà come ogni gesto creativo deve fare. Raccontare, scrivere è esattamente questo: lavorare sulla realtà, non semplicemente descriverla, rifletterla. Lavorare la realtà significa penetrarla, scavarci dentro, rivelarne aspetti e tendenze che spesso sfuggono all’occhio normale e a volte anche a quello più scaltro. E’ il grande gioco, il grande compito, della letteratura, della narrazione in questo caso. Parole in fila scelte bene e che, insieme, dicono più di quanto non sembri, mostrano più di quanto non ci sembri di vedere di solito… … Spesso la letteratura, l’arte, sono così. Vivono come stanze separate nella nostra stessa dimora, come parti sconosciute e (apparentemente) infrequentabili della nostra stessa esperienza, come un cuore sconosciuto accanto a solito che ci batte in petto. E’ compito di chi scrive far sentire quel battito, aprire la porta di quella stanza, rendere praticabile quel lato segreto dell’esperienza. Possono nascondere rischi, produrre rivelazioni sgradevoli, perfino sconvolgenti. In ogni caso, ci rendono più consapevoli, più liberi.”
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Lingua:Italiano
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