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La luna e i falò. Ediz. integrale
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La luna e i falò. Ediz. integrale - Cesare Pavese - copertina
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luna e i falò

Descrizione


La storia de "La luna e i falò", romanzo forse autobiografico, comincia quando il protagonista, di cui conosciamo il soprannome, Anguilla, torna dall'America al suo paese d'origine nelle Langhe, dopo la Liberazione. Ritrova il compagno di un tempo, Nuto, figura solida e integra che rappresenta un punto di riferimento per tutti al villaggio. Con lui ripercorre, in un continuo fluire di ricordi che si confrontano con la realtà del presente, gli anni della giovinezza e ricostruisce la sorte dei tanti che aveva lasciato partendo. Il mondo contadino che Anguilla conosceva è veramente rimasto intatto come appare, malgrado il tempo, gli orrori e le miserie della guerra? Qual è il segreto dei falò della notte di San Giovanni, a cui dai tempi dei tempi i contadini attribuiscono il potere di determinare la fortuna del raccolto? Qual è il segreto di Nuto? Tra paesaggi naturali e paesaggi dell'anima, questo romanzo, l'ultimo di Pavese, è il racconto di un viaggio tra ricordi del passato e nuove consapevolezze politiche ed esistenziali. Prefazione di Paolo Di Paolo.
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Dettagli

2021
Tascabile
7 gennaio 2021
192 p., Rilegato
9788822749758
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Indice


Le prime frasi del romanzo

C'è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c'è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch'io possa dire «Ecco cos'ero prima di nascere». Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana. Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.
Se sono cresciuto in questo paese, devo dir grazie alla Virgilia, a Padrino, tutta gente che non c'è più, anche se loro mi hanno preso e allevato soltanto perché l'ospedale di Alessandria gli passava la mesata. Su queste colline quarant'anni fa c'erano dei dannati che per vedere uno scudo d'argento si caricavano un bastardo dell'ospedale, oltre ai figli che avevano già. C'era chi prendeva una bambina per averci poi la servetta e comandarla meglio; la Virgilia volle me perché di figlie ne aveva già due, e quando fossi un po' cresciuto speravano di aggiustarsi in una grossa cascina e lavorare tutti quanti e star bene. Padrino aveva allora il casotto di Gaminella – due stanze e una stalla – la capra e quella riva dei noccioli. Io venni su con le ragazze, ci rubavamo la polenta, dormivamo sullo stesso saccone, Angiolina la maggiore aveva un anno più di me; e soltanto a dieci anni, nell'inverno quando morì la Virgilia, seppi per caso che non ero suo fratello. Da quell'inverno Angiolina giudiziosa dovette smettere di girare con noi per la riva e per i boschi; accudiva alla casa, faceva il pane e le robiole, andava lei a ritirare in municipio il mio scudo; io mi vantavo con Giulia di valere cinque lire, le dicevo che lei non fruttava niente e chiedevo a Padrino perché non prendevamo altri bastardi.
Adesso sapevo ch'eravamo dei miserabili, perché soltanto i miserabili allevano i bastardi dell'ospedale. Prima, quando correndo a scuola gli altri mi dicevano bastardo, io credevo che fosse un nome come vigliacco o vagabondo e rispondevo per le rime. Ma ero già un ragazzo fatto e il municipio non ci pagava più lo scudo, che io ancora non avevo ben capito che non essere figlio di Padrino e della Virgilia voleva dire non essere nato in Gaminella, non essere sbucato da sotto i noccioli o dall'orecchio della nostra capra come le ragazze.
L'altr'anno, quando tornai la prima volta in paese, venni quasi di nascosto a rivedere i noccioli. La collina di Gaminella, un versante lungo e ininterrotto di vigne e di rive, un pendio così insensibile che alzando la testa non se ne vede la cima – e in cima, chi sa dove, ci sono altre vigne, altri boschi, altri sentieri – era come scorticata dall'inverno, mostrava il nudo della terra e dei tronchi. La vedevo bene, nella luce asciutta, digradare gigantesca verso Canelli dove la nostra valle finisce. Dalla straduccia che segue il Belbo arrivai alla spalliera del piccolo ponte e al canneto. Vidi sul ciglione la parete del casotto di grosse pietre annerite, il fico storto, la finestretta vuota, e pensavo a quegli inverni terribili. Ma intorno gli alberi e la terra erano cambiati; la macchia dei noccioli sparita, ridotta una stoppia di meliga. Dalla stalla muggì un bue, e nel freddo della sera sentii l'odore del letame. Chi adesso stava nel casotto non era dunque più così pezzente come noi. M'ero sempre aspettato qualcosa di simile, o magari che il casotto fosse crollato; tante volte m'ero immaginato sulla spalletta del ponte a chiedermi com'era stato possibile passare tanti anni in quel buco, su quei pochi sentieri, pascolando la capra e cercando le mele rotolate in fondo alla riva, convinto che il mondo finisse alla svolta dove la strada strapiombava sul Belbo. Ma non mi ero aspettato di non trovare più i nocciooli. Voleva dire ch'era tutto finito. La novità mi scoraggiò al punto che non chiamai, non entrai sull'aia. Capii lì per lì che cosa vuol dire non essere nato in un posto, non averlo nel sangue, non starci già mezzo sepolto insieme ai vecchi, tanto che un cambiamento di colture non importi. Certamente, di macchie di noccioli ne restavano sulle colline, potevo ancora ritrovarmici; io stesso, se di quella riva fossi stato padrone, l'avrei magari roncata e messa a grano, ma intanto adesso mi faceva l'effetto di quelle stanze di città dove si affitta, si vive un giorno o degli anni, e poi quando si trasloca restano gusci vuoti, disponibili, morti.
Meno male che quella sera voltando le spalle a Gaminella avevo di fronte la collina del Salto, oltre Belbo, con le creste, coi grandi prati che sparivano sulle cime. E più in basso anche questa era tutta vigne spoglie, tagliate da rive, e le macchie degli alberi, i sentieri, le cascine sparse erano come li avevo veduti giorno per giorno, anno per anno, seduto sul trave dietro il casotto o sulla spalletta del ponte. Poi, tutti quegli anni fino alla leva, ch'ero stato servitore alla cascina della Mora nella grassa piana oltre Belbo, e Padrino, venduto il casotto di Gaminella, se n'era andato con le figlie a Cossano, tutti quegli anni bastava che alzassi gli occhi dai campi per vedere sotto il cielo le vigne del Salto, e anche queste digradavano verso Canelli, nel senso della ferrata, del fischio del treno che sera e mattina correva lungo il Belbo facendomi pensare a meraviglie, alle stazioni e alle città.
Così questo paese, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l'ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto. Uno gira per mare e per terra, come i giovanotti dei miei tempi andavano alle feste dei paesi intorno, e ballavano, bevevano, si picchiavano, portavano a casa la bandiera e i pugni rotti. Si fa l'uva e la si vende a Canelli; si raccolgono i tartufi e si portano in Alba. C'è Nuto, il mio amico del Salto, che provvede di bigonce e di torchi tutta la valle fino a Camo. Che cosa vuol dire? Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo. Da un anno che lo tengo d'occhio e quando posso ci scappo da Genova, mi sfugge di mano. Queste cose si capiscono col tempo e l'esperienza. Possibile che a quarant'anni, e con tutto il mondo che ho visto, non sappia ancora che cos'è il mio paese?
C'è qualcosa che non mi capacita. Qui tutti hanno in mente che sono tornato per comprarmi una casa, e mi chiamano l'Americano, mi fanno vedere le figlie. Per uno che è partito senza nemmeno averci un nome, dovrebbe piacermi, e infatti mi piace. Ma non basta. Mi piace anche Genova, mi piace sapere che il mondo è rotondo e avere un piede sulle passerelle. Da quando, ragazzo, al cancello della Mora mi appoggiavo al badile e ascoltavo le chiacchiere dei perdigiorno di passaggio sullo stradone, per me le collinette di Canelli sono la porta del mondo. Nuto che, in confronto con me, non si è mai allontanato dal Salto, dice che per farcela a vivere in questa valle non bisogna mai uscirne. Proprio lui che da giovanotto è arrivato a suonare il clarino in banda oltre Canelli, fino a Spigno, fino a Ovada, dalla parte dove si leva il sole. Ne parliamo ogni tanto, e lui ride.

Valutazioni e recensioni

Recensioni: 5/5

E' stato proprio "La luna e i falò" a far nascere in me l'amore per la prosa e la poesia di Pavese. Autore tormentato che ha dato vita ai veri capolavori della letteratura italiana neorealista. Le trame apparentemente semplici si scontrano con la complessità di questo autore, che è sempre un piacere leggere e rileggere. Questo romanzo in particolare, offre al lettore la possibilità di immergersi in un modo primitivo, quello della terra d'origine di un uomo, che dopo aver cercato e trovato fortuna in America torna in Italia. L' Italia è ovviamente è quella del secondo dopoguerra; quella piena di macerie, soprattutto dell'animo. Il protagonista nel corso dei capitoli si perde nel raccontare la sua storia triste, per poi giungere ad una profonda consapevolezza: l'importanza della famiglia e del luogo d'origine. Consiglio la lettura, ma raccomando al lettore estrema cautela: Pavese crea dipendenza!

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Recensioni: 5/5

Uno di quei libri immortali, non a caso considerato il capolavoro di Pavese, che restano dentro per sempre semplicemente perchè c'è 'un paese' in ognuno di noi, volenti o nolenti. Anguilla e la sua epopea, ma soprattutto quel suo tornare per meravigliare qualcuno che però non c'è più, la delusione di ottenere qualcosa di pur importante quando non importa più, ecco alcuni dei temi principali, oltre a quello classico del ritorno alle origini e la ricerca quasi spasmodica di radici che possano testimoniare d'esserci stati, d'aver vissuto... l'ho letto almeno sette volte, ogni volta ci ho scorto dentro qualcosa che m'era sfuggito la volta prima. Penso che questo fatto faccia la grandezza d'un libro, la scoperta senza fine... Amaro e reale fino all'autolesionismo, contiene tutta la filosofia di vita di un autore che ha saputo comunque interpretare i disagi e le ansie di molti e non a caso e' stato il libro conclusivo, il testamento di Pavese. Il libro tra quelli letti che ho più amato, assolutamente senza tempo.

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Recensioni: 5/5

Libro particolare, impegnativo, ma bellissimo! E' il periodo successivo alla lotta partigiana antifascista ed alla Liberazione. Anguilla, dopo molti anni trascorsi in America a cercar fortuna, torna al suo paese d'origine sulle colline delle Langhe, alla ricerca delle proprie radici. Ritrova l'amico Nuto, con il quale ripercorre i luoghi della propria vita adolescenziale. Alla Mora, vendemmiava, sfogliava, torchiava; mangiava il coniglio con la polenta e andava per funghi. In quella terra era cresciuto, tra canne e cascine sperdute, tra il Belbo e Canelli, lavorando, soffrendo, andando alle feste di paese. C'erano i falò e "la notte di San Giovanni tutta la collina era accesa". Ora, Anguilla desidera soltanto vedere qualcosa che ha già visto: "carri, fienili, una bigoncia, una griglia, un fiore di cicoria, un fazzoletto a quadrettini blu, una zucca da bere, un manico di zappa". Il suono di una martinicca risveglia in lui tutte quelle cose che si è portato dentro tutti quegli anni. Quelle cose che "non sapeva più di sapere". E "non sapeva che crescere vuol dire andarsene, invecchiare, vedere morire, ritrovare la Mora com'era adesso". Anguilla ha fatto fortuna ed è tornato, ma le facce, le voci e le mani che dovevano toccarlo e riconoscerlo non ci sono più: "Pareva un destino. Certe volte mi chiedevo perché, di tanta gente viva, non restassimo adesso che io e Nuto, proprio noi" ? "Di tutto quanto della Mora, di quella vita di noialtri, che cosa resta?" Questo libro parla di tanta sofferenza e di cose semplici come "una ventata di tiglio la sera". Le descrizioni chiare e dettagliate stimolano l'immaginazione visiva del racconto che, pur non presentando dialoghi, solo qualche battuta, mantiene il proprio magnetismo sino alla fine. E' stata una lettura difficile, ma che mi ha dato tanto. Ora, anche in me un suono familiare risveglia qualcosa che non sapevo più di sapere. E, forse, riuscirò a gioirne prima che essa si consumi, sotto la luna, al fuoco di un falò.

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Cesare Pavese

1908, Santo Stefano Belbo (Cuneo)

Studia a Torino dove si laurea con una tesi su Walter Withman. Sin dagli anni Venti legge i maggiori autori americani e inizia a tradurre le loro opere. Fra il 1935 e il 1936, per i suoi rapporti con i militanti del gruppo Giustizia e Libertà viene arrestato, processato e inviato al confino a Brancaleone Calabro. Tornato a Torino inizia a collaborare con la casa editrice Einaudi nel 1934 per la realizzazione della rivista «La Cultura», che dirige a partire dal terzo numero. Nel 1945-46 dirige la sede romana della medesima casa editrice. Ha svolto un ruolo fondamentale nel passaggio tra la cultura degli anni Trenta e la nuova cultura democratica del dopoguerra. Dopo la Liberazione, si iscriv al partito Comunista. Seguono anni di lavoro molto intenso, in cui pubblica le sue...

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