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Era il 1994 quando Oliver Stone mandò in scena la coppia di pazzoidi più avant-pop del secolo scorso. L’uno con il viso spiritato di Woody Harrelson, l’altra con il corpo flessuoso di Juliette Lewis. Il risultato una pellicola che sulla metà dei ‘90 creò non pochi problemi in termini di censura e che ne decretò altrettanti in termini di emulazione da parte di chi volle replicare le stragi perpetrate da due moderni Bonnie e Clyde. Un film, scritto inizialmente da Quentin Tarantino, il quale preferì abbandonare il progetto quando si accorse che del proprio canovaccio non era rimasto molto, che nell’idea di Stone esalta, come era comunque nel desiderio di Tarantino, l’aspetto distorcente della realtà filtrata dai media. Ogni ripresa, ogni efferatezza viene infatti vissuta e rivista come un episodio di un serial con risate fuori campo. Come un fumetto (preferibilmente un manga) mal disegnato. Il tutto esaltato da una musica a volte sincopata e altre melliflua oppure rockeggiante. Grande in tal senso il merito sia di Leonard Coehn sia di Trent Reznor nella scelta delle canzoni che compongono la soundtrack. Nella testa del regista ed ex reduce del Vietnam il desiderio più preponderante è quello di parodiare le gesta di altri serial killer, come il Charles Manson messo sull’altare da parte di Woody Harrelson. Oltre al desiderio di dimostrare come i media siano in grado di trasformare in una coppia di rockstar un duo di killer senza alcuna pietà e ragione alcuna, se non per le violenze subite da entrambi e ovviamente vendicate a suon di stragi impunite. Tutto il cast si accomoda al servizio di una pellicola che ancora oggi fa riflettere sull’uso e l’esaltazione di come la notizia, le opinioni dei singoli e soprattutto i fatti possano venire facilmente manipolati ad arte. Da non perdere ma solo per chi apprezza sia pellicole con chiavi di lettura non semplici, spargimenti di sangue apparentemente gratuiti e trame schizoidi e privi di qualunque linearità sequenziale.
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