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Nel 1997, a 8 anni di distanza dal suo primo lungometraggio (Violent Cop) Takeshi Kitano raggiunge la popolarità e il successo internazionale che merita: il film che fa nascere il “fenomeno Kitano” è Hana-Bi, all’unanimità considerato il suo capolavoro, che fa incetta di premi in tutto il mondo, tra cui il Leone d’oro a Venezia (cosa che gli apre le porte del successo anche in Italia). Profondamente legato proprio a Violent Cop per alcune evidenti analogie narrative (lo sbirro protagonista violento e solitario, la parente malata, l’omicidio/suicidio finali), Hana-Bi racconta sostanzialmente due vicende parallele: quella dell’ex-poliziotto Nishi, alle prese con una moglie malata di leucemia e con un gruppo di gangster che minaccia di farlo fuori perché non ha estinto un vecchio debito (forse contratto proprio per pagare le cure della moglie), e quella del suo collega Horibe, che durante una sparatoria rimane paralizzato, e, abbandonato dalla famiglia, trova rifugio nella pittura e nell’arte. In entrambe queste storie, che si intrecciano in una sceneggiatura che fa dei silenzi, dell’assenza di dialogo, e dell’anti-narratività i suoi punti di forza (ma questo è un discorso estendibile a tutta la cinematografia del regista\attore giapponese), tornano le tematiche ed i luoghi tipici del cinema di Kitano: la violenza (le cui manifestazioni sono sempre improvvise e devastanti) e la morte, elementi presenti nella vita di ogni giorno (il personaggio di Nishi convive con entrambi, essendo costretto allo stesso tempo ad uccidere gli yakuza che lo vogliono morto e ad accudire la moglie malata terminale); il senso di colpa (sempre Nishi vive col rimorso di essere stato la causa della paralisi di Horibe, ma anche, come si evince dai vari flashback che si susseguono durante il film, della morte di un altro collega); il mare, sorta di “non-luogo” dove è possibile ritrovare il legame con il passato e l’armonia con sé stessi e con il mondo (è in riva al mare che si rifugia Horibe, ed è in riva la mare che si consuma il drammatico finale della vicenda). Hana-Bi introduce poi un nuovo elemento nel cinema kitaniano: quello del potere salvifico, quasi di redenzione, dell’arte (si pensi alla bellissima scena in cui Horibe guarda la vetrina di un fioraio, immaginando i possibili soggetti dei suoi quadri), elemento questo tra l’altro fortemente autobiografico visto che lo stesso Kitano, dopo l’incidente che quasi gli costò la vita nel 1994, si dedicò proprio alla pittura durante il lungo periodo di riabilitazione (ed i quadri che si vedono nel film sono tutti opera dello stesso Kitano). Il lirismo del regista giapponese raggiunge vertici di grandissima poesia (grande merito va in questo senso alla colonna sonora immensa di Joe Hisaishi, che con Hana-Bi realizza una delle sue migliori colonne sonore) sia nelle sequenze sulla neve, sia più in generale in tutta la parte finale, in cui Nishi e la moglie riallacciano un rapporto giocoso, ludico, non “amoroso” nel senso proprio del termine, bensì quasi platonico, e quindi in questo senso contraddistinto da una purezza che riconduce al passato e all’infanzia (altro tema portante del cinema di Kitano). E con il titolo del film (Hana-Bi significa “fiori di fuoco”), che esprime il contrasto fra un elemento di assoluta bellezza (il fiore) ed uno potenzialmente distruttivo (il fuoco), Kitano sembra volerci ricordare che questa è una pellicola che, come tutto il suo cinema, ci parla di bene e male, di bellezza e di violenza, di vita e di morte.
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