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Anno edizione: 2014
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Ho cercato di pescare fra i miei ricordi scolastici questa battaglia dall’esito a noi sfavorevole, ma il risultato è stato sconfortante. Nella memoria ho trovato altre sconfitte: quelle della prima guerra d’Indipendenza, quelle della terza guerra d’Indipendenza, fra le quali ben chiaro è stato l’episodio di Lissa, nonché la famosa e tristemente nota ritirata di Caporetto. Del resto le nostre guerre coloniali hanno pochi accenni nei programmi scolastici, come se ci dovessimo vergognare di aver voluto assoggettare altri popoli nel periodo in cui noi cercavamo di liberare dal dominio straniero degli italiani come noi. Sì, ho memoria della disfatta di Adua, ma della guerra condotta in Libia, che si concluse dopo molti anni con una pacificazione ottenuta con metodi barbari e crudeli, riesco ad avere solo un’idea confusa e quindi è ben difficile pensare che Gasr Bu Hadi, questa località desertica del Fezzan, possa avere qualche significato per me. Eppure lì patimmo una cocente sconfitta con il rischio consistente di essere ributtati in mare e di finire nel peggiore dei modi la nostra avventura coloniale nell’Africa settentrionale. Per fortuna che fornisce chiari lumi al riguardo lo storico Angelo Del Boca con questo volume che ha anche il pregio di riparare alle tante omissioni relative alla nostra colonizzazione libica. Il tutto accadde nell’imminenza della partecipazione dell’Italia alla prima guerra mondiale, quando i bellicosi mujâhidîn arabi si ribellarono e venne inviato a sedare la rivolta un corpo di spedizione comandato da un ufficiale di comprovate capacità e di lunga esperienza coloniale quale era il colonnello Antonio Miani. Il libro evidenzia i nostri cronici difetti, che già dolorosamente si rivelarono ad Adua, e in genere in tutte le guerre a cui partecipammo: l’approssimazione e la sottovalutazione del nemico; a ciò si aggiungono, nello specifico caso, gli ordini contraddittori del comando di Tripoli e l’invidia di non pochi ufficiali verso un soldato che si era meritato promozioni e medaglie sul campo, e non in poltrona. Purtroppo, Miani contava di avere forze superiori e invece erano inferiori, dava una fiducia oltre ogni logica alle bande irregolari aggregate alla spedizione, procedeva verso lo scontro come se avesse avuto di fronte dei poveri diavoli armati solo di asce e di lance. E poi, in un ufficiale di cui si presagiva un grande avvenire, si scoprono inutili manie di grandezza, rappresentate dalla corposa e ingombrante colonna delle salmerie, con vettovagliamento e munizioni non di certo per una breve campagna, come si ipotizzava, ma per una lunga e logorante guerra. Tradito dagli irregolari, che già i giorni precedenti avevano dimostrato ben scarso affidamento, comportamento inspiegabilmente ignorato dal colonnello, rallentato dalla citata colonna dei rifornimenti, il nostro corpo di spedizione finì in bocca agli avversari e fu una strage. I superstiti, compreso il colonnello ferito ben due volte, riuscirono a riparare in un nostro fortino sulla costa, anche perché i ribelli si gettarono sull’ambita preda costituita dalle salmerie. Miani si vendicò del tradimento colpendo anche chi non c’entrava e numerose furono le pene capitali immediatamente eseguite. L’uomo, conosciuto come autoritario, ma anche come giusto e imparziale, rivelò una ferocia senza precedenti. Le colpe della disfatta però non erano solo sue, investendo anche il governatore militare e il ministro delle colonie e fu questo che salvò Miani da un processo, in cui sarebbero stati inevitabilmente chiamati in causa le predette autorità, con gravi ripercussioni sullo spirito di un paese che da lì a pochi giorni avrebbe dichiarato guerra all’Austria. Comunque per Miani la carriera militare era finita, ma lui non ci stava a essere il capro espiatorio, e se un processo ci fosse stato – ma non ci fu per i motivi sopra precisati – forse avrebbe potuto difendersi, almeno per sminuire le sue colpe; fu così che si affidò alle memorie, ad articoli, insomma a tutto quanto gli era possibile per difendere la propria onorabilità. Il libro é illuminante e piacevole da leggere al punto che mi sento di consigliarlo.
Un libro che viaggia in parallelo perfetto con "Fucilate gli ammiragli" di Gianni Rocca: un ufficiale capace, magari non esente da qualche colpa, che si scontra con l'ignavia e l'inettitudine della classe politica nostrana, impegnata solo nel dare a qualcun altro la colpa del fallimento di una missione impossibile da portare a termine. Qui si parla dell'avventura coloniale italiana, alla vigilia dello scoppia della Grande Guerra. In "Fucilate gli ammiragli" della tragedia della Marina Militare, durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma il Paese e gli uomini che Del Boca e Rocca descrivono sono sempre gli stessi.
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