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Anno edizione: 2019
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Le pazze sono le madri. Le madri argentine che dal 30 aprile 1977 ogni giovedì si incontrano nella Plaza de Mayo di Buenos Aires, davanti alla Casa Rosada, il palazzo presidenziale, per denunciare i figli scomparsi, desaparecidos. Le chiamavano così, donne avvezze alla cucina e alle faccende di casa, tra bucato e empanadas, che improvvisamente avevano affrontato le autorità, Il governo, la polizia, i militari. All’inizio con ingenuo coraggio, poi con determinata sfacciataggine. Per riavere i figli indietro. Daniela Padoan, scrittrice e appassionata conoscitrice dei drammi del novecento, blogger de ‘il fatto quotidiano’, racconta la storia, privata e pubblica, di queste donne che oggi hanno superato gli ottanta e spesso i novanta, senza smettere di marciare. Da quelle prime riunioni clandestine, in piena dittatura, dove si sono ritrovate a darsi appuntamenti segreti, a organizzarsi insieme per capire come richiedere gli habeas corpus dei figli, hanno fatto molta strada, o dovremmo dire piazza. La piazza è il luogo dove le madri hanno capito che potevano succedere delle cose. Dopo essersi raccontate le storie dei figli, hanno inventato una originale forma di lotta, con il loro fazzoletto bianco in testa, che originariamente rappresentava il pannolino dei loro figli (il pañuelo), operando in se stesse una continua e stupefacente trasformazione. Hanno inscenato tribunali in piazza, hanno protestato quando nel 1978 l’Argentina tentava di darsi una credibilità con il mondiale di calcio, vinto non senza qualche riserva, sono letteralmente sgusciate tra le gambe dei militari per disturbarne le manifestazioni, sono state allontanate, arrestate, picchiate. Nel 1977 tre di loro sono scomparse, Azucena, Maria, Esther. Forse la giunta militare si aspettava che quelle casalinghe se ne sarebbero tornate a casa, impaurite, coscienti di affrontare qualcosa di troppo grande per loro. Ma non si fermarono, anzi. Hanno imparato a fare volantini, hanno scritto ai governi, alla chiesa, al papa, spesso facendo fatica ad essere ascoltate e ricordando il coraggio di chi le ha sostenute nei tempi difficili, a cominciare dal nostro presidente Pertini, proprio nel ’78, quando il suo pari in Argentina era il generale Videla. Non si sono mai rassegnate alla morte dei figli, ma hanno deciso che tutte insieme sarebbero state madri di tutte le figlie e i figli, perché era meglio lottare per tutti i loro figli insieme, piuttosto che per i casi singoli. Hanno quindi socializzato la maternità e superato la ricerca individuale, per poi compiere un nuovo salto, impegnarsi per ciò in cui credevano i figli e per cui erano morti. Per continuarli, per dare loro voce e vita ininterrottamente, sono diventate, coscientemente o meno, un soggetto politico. Non piangere ma riprendere da dove i figli erano arrivati, questo il progetto. Il loro modo di elaborare il lutto. Si sono definite, con una straordinaria espressione, ‘continuamente in cinta dei figli’, per rappresentare ciò che di nuovo continuavano a costruire in loro nome, laboratori di scrittura e pittura, spazi per conferenze e incontri, viaggi e collaborazioni internazionali. Alle prime elezioni dell’83, dopo sette anni di dittatura militare, vinte dal radicale Alfonsin, non si sono accontentate delle annacquate condanne ai generali, né dei risarcimenti promessi. Non hanno insomma mancato di criticare anche i governi democraticamente eletti, se non ritenevano facessero autentica giustizia. Per la prima volta hanno concesso la loro fiducia a Nestor Kirchner nel 2003, che ha dato un segnale forte di discontinuità verso l’impunità. Con una presa di posizione non facile da comprendere, hanno criticato l’iniziativa del governo Kirchner di trasformare la sede della Scuola di Meccanica della Marina, la famigerata ESMA, emblematico luogo di tortura, in museo della memoria, perché ritenuto dalle madri un museo dell’orrore. Il luogo da dove partivano gli agghiaccianti ‘voli della morte’, ogni mercoledì per due anni, per gettare in mare tra le venti e trenta persone alla volta, narcotizzate e con pesi alle caviglie perché il Rio de la Plata non ne restituisse i corpi. Una storia ben raccontata dal giornalista Horacio Verbitzky. Anche l’Argentina ha avuto le sue storie di ordinario nazismo. Nel libro, l’autrice fa precedere le interviste alle madri da efficaci cornici che aiutano ad inquadrare storicamente l’epoca, offendo al lettore gli elementi minimi necessari per comprendere questo capitolo drammatico, ma anche pieno di vita, di storia argentina.
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