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Anno edizione: 2019
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Nonostante fossi scettica nei confronti del sottotitolo troppo ambizioso (“svelare le vere cause della depressione e le inattese soluzioni!”), devo ammettere di essermi accinta alla lettura di Lost Connections con aspettative molto alte, data la presenza del libro nella lista dei bestsellers del New York Times nel 2018 e le critiche entusiastiche firmate da nomi altisonanti che ne consigliano la lettura ad un vasto pubblico. L’autore, il giornalista britannico Johann Hari, sa bene quanto ai lettori piacciano le storie e come siano recettivi nei confronti dei contenuti trasmessi tramite queste, ed è interessante l’approccio che ha scelto per il suo libro, di cui descrive la genesi ed il percorso, intrecciando la propria narrativa personale a quella di altri individui affetti da depressione ed alle biografie di psichiatri che hanno rivoluzionato lo stato delle conoscenze attuali sui disturbi mentali. Partendo dalla propria esperienza di consumatore di antidepressivi ed ansiolitici dai tempi dell’adolescenza l’autore, che ha già pubblicato un libro sulla dipendenza, intraprende un viaggio in giro per il mondo, scalando montagne, intervistando nativi americani e membri di comunità Amish, visitando centri di dipendenza da videogiochi a Washington ed unendosi a movimenti popolari contro lo sfratto a Berlino. Sostanzialmente Hari denuncia un certo approccio psichiatrico che rintraccerebbe in uno squilibrio chimico l’insorgere dei disturbi mentali, misconoscendo l’importanza dei fattori psicologici ed ambientali, proponendo farmaci come unico antidoto alla depressione e negando la legittimità del dolore psichico in rapporto a determinati contesti ed eventi. Tale approccio, che Hari anche a partire della propria esperienza personale giudica essere quello dominante, sarebbe il risultato di una ricerca scientifica corrotta dai forti interessi dell’industria farmaceutica. I farmaci, sostiene Hari, non solo non costituiscono gli unici antidoti alla depressione, ma, secondo certi studi clinici, offrirebbero un sollievo solo temporaneo da tale disturbo. È senza dubbio una scelta coraggiosa, e soprattutto delicata, scrivere un libro sulla depressione. Tanti tabù persistono nonostante il dilagare del fenomeno, mentre proliferano i manuali di self-help che promettono pronte guarigioni e rimedi individuali a problemi che richiedono invece un adeguato accompagnamento medico e sociale. Doveroso l’appello ad una ricerca scientifica che non sia finanziata esclusivamente dall’industria farmaceutica. Eticamente responsabile l’insistenza sulla depressione e sulle sofferenze psicologiche quali risposte sane, sia pure a volte amplificate da un certo patrimonio genetico, ad eventi o situazioni che non rispondono ai nostri ideali di umanità lato sensu, spaziando dal bisogno di legami personali autentici al contatto con la natura, dalla realizzazione professionale alla sicurezza materiale ed alla fiducia in un futuro stabile e non completamente fuori controllo. Nel sottolineare soprattutto i fattori ambientali scatenanti la depressione, Hari non fa che ricordarci costantemente che, anche in una società animata da valori sempre più consumistici e individualistici, l’uomo è, per dirla con Aristotele, in origine pòlis, e pertanto bisognoso di vivere in una comunità in cui poter “dire la sua” e contribuire ad alimentare un sistema di valori che costituisca le mura in cui il suo quotidiano si svolga ed il passato ed il futuro acquistino un senso. Il fatto che tale messaggio non sia originale e rivoluzionario quanto ambisca ad essere nulla toglie alla sua importanza (repetita iuvant) ed alle doti narrative di Hari, la cui prosa in inglese è semplice ed accattivante. Di fronte ad una malattia tra i cui sintomi figura il ripiegarsi in una dimensione solitaria ed autoreferenziale, ed a volte vittimistica, è importante sottolineare che il supporto di una comunità costituisce non solo un antidoto naturale alla depressione, ma anche la condizione necessaria per superarla e intraprendere azioni collettive che sortiscano i cambiamenti sociali necessari. Dire che il male non è o non è solo dentro la testa dell’individuo equivale a riconoscere il ventaglio di possibili azioni che questo può intraprendere per alleviare o superare il proprio dolore. Per finire, il modo in cui Hari dà voce alle storie di eroi ed eroine che hanno superato la depressione testimonia un ascolto empatico e delicato e costituisce, a mio avviso, l’aspetto migliore del libro; sono tuttavia perplessa per il messaggio veicolato, specialmente in rapporto al fatto che la maggior parte dei lettori versano, immagino, in un delicato stato psicologico. Non sono psichiatra, ma non mi sembra che nel dibattito attuale la spiegazione biologica della depressione sia la sola dominante, né che si precluda qualsiasi legittimità al dolore. Senza dubbio la società e gli stili di vita attuali non aiutano a superare certi problemi, favorendone al contrario l’insorgere, ma penso sia ormai assodato che la terapia farmaceutica sia da accompagnare ad un sostegno psicologico, pur restando più difficile per lo psichiatra aiutare il paziente a costruire quei cambiamenti sociali che sarebbero parimenti necessari. Pensiamo ai tanti che diffidano di un accompagnamento psichiatrico. Penso alla Francia, dove un altissimo consumo di antidepressivi ed ansiolitici è prescritto oggi da medici generalisti, e non da specialisti. È utile e produttivo presentare gli unici psichiatri aventi una visione più olistica del problema, e consapevoli della dimensione psico-sociale di questo, quali outsiders, voci fuori dal coro, attribuendo alla maggior parte dei loro colleghi una visione “ottusa” del problema? Non si rischia di rendere ancora più diffidenti quanti hanno difficoltà a consultare uno specialista? Per l’Hari adolescente ingurgitare il primo antidepressivo è stata una scelta facile ed accolta con entusiasmo, ma non penso che tale approccio possa essere attribuito tutti i pazienti. La responsabilità di tante terapie meramente farmacologiche, prive di un adeguato percorso psicologico e comunitario, non è forse dovuto, più che a cattivi psichiatri, a ritmi di vita e ad abitudini che ci inducono ad optare per le soluzioni che appaiono più rapide? È veramente opportuno contribuire alla demonizzazione dei farmaci, che pure aiutano tanti pazienti a trovare le risorse per dare vita ai cambiamenti necessari del loro quotidiano, nei limiti delle loro possibilità? Importante la rivoluzione sociale o, meglio, politica nel senso originario del termine, auspicata da Hari, ma importante ugualmente, nell’attesa che questa si realizzi, mantenere uno sguardo lucido sugli attuali progressi della psichiatria e soprattutto pensare alla responsabilità nei confronti del proprio pubblico di lettori.
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