Poesie

Ciò che più mi affascina nell’ec-centrico idioletto di questo poeta, è lo sviamento continuo del linguaggio, un’articolazione di significati che si rapprende in fecondi e facondi gorghi di senso; vortici che girano attorno ad una trama puntiforme di vuoti, un fitta trama di non detto e d’indicibile. E’ una sproporzione del tutto particolare che si potrebbe definire, col gusto dell’ossimoro, more geometrico e che, avvalendosi a suo modo d’uno strumento d’alta precisione semiotica, appare perfettamente radicata nel pur singolare luogo che abita. Ciò che più m’affascina dunque, è il suo accavallarsi e scavallarsi ininterrotto di parole, il suo caleidoscopio di “paesaggi” generati dal cortocircuito di concetti e d’immagini che schizzano via, nelle più diverse direzioni, in tragici svolazzi pindarici. L’uso che De Angelis fa delle connessioni metaforiche è straordinario. Non si tratta d’un dadaistico coup de dés o d’un “taglia e incolla”, anche si vi ho colto lievi affinità col Balestrini d’Ipocalisse, ma di una liberazione totale del potere semantico dell’enunciare che arriva all’estremo del visionario, al miracolo del silenzio. Si tratta d’una caduta libera, d’una metastasi del significato in parole tumide di senso, in immagini che tentano di racchiudersi nel tutto, che tentano di racchiudere se stesse mostrandosi in un cerchio compiuto ma che in realtà, non sono che una parte infinitesimale dei cerchi concentrici che il sasso- parola ha originato frangendo la superficie levigata della poesia. Per questo, il suo, rimane un versificare sospeso nel vuoto, sospeso in un presente eternizzato e, in un certo senso, reso assoluto dal segno, dalla voce che mostra la ferita dell’esistere anche solo nella sua eco. La storia ed il tempo, persi in questo rimbombo tra due pareti scalcinate, l’apparire e la diversità, si disfano nel presente. Il presente del dirsi disfa il tempo, il tempo appunto, dell’intrecciarsi del discorso e, con esso, disfa pure l’intera storia per non fare dell’altrove un tempio abitabile . Nel gioco di specchi e di rimandi tra il manifestarsi dell’esistente e l’alterità metaforica, l’atto del decifrare sta alla radice di questa scrittura. Milo De Angelis cerca strenuamente di tradurre l’esperienza in linguaggio, l’esperire in segno scritto, in scrittura, colla consapevolezza d’aver a che fare con due codici probabilmente estranei, incompatibili e inconciliabili, o per dirla meno disperatamente, colla sensazione di trovarsi nei panni d’un liceale poco diligente alle prese con una complicata versione di latino o di greco.