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Lo prendo come un saggio basato sulla spiegazione giudiziaria dell'accusa a due persone accusate da una donna di aver iniziato la peste in Lombardia attraverso un unguento. L'intera vicenda ha i tratti folcloristici della superstizione, il far credere la colpa sia di due uomini che di scienza avevano poco a che fare. Affronta il rapporto tra le responsabilità del singolo e le credenze e convinzioni personali o collettive del tempo. Cerca di sottolineare l'errore commesso dai giudici e l'abuso del loro potere, che calpestò ogni buonsenso e pietà umana, spinti da una convinzione del tutto infondata e da una paura legata alla tremenda condizione del tempo provocata dall'epidemia di peste. Ne fa una lezione universale, indagandone gli errori, i terribili abusi e soprusi, realmente accaduti a dei poveri cittadini innocenti. Manzoni mostra come le persone possano esser traviate da credenze fallaci essendo lui stesso cattolico ma dalla parte dell'illuminista ragione che cerca di portare a galla parlando al lettore. Non ho trovato la copertina giusta e devo dire la storia sia bella e interessante attraverso le sue riflessioni ma la scrittura e la narrazione le ho trovate difficili da seguire, ho capito in generale l'accaduto nonostante sia breve in sé.
Nel corso del lavoro preparatorio dei Promessi sposi, consistente nella ricerca di documentazioni sui fatti dell’epoca in cui si svolge la vicenda di Renzo e Lucia, Alessandro Manzoni s’imbatté in incartamenti che parlavano di un processo intentato nel 1630 nei confronti di due uomini accusati di propagare la peste che allora infieriva nel milanese e nelle contrade limitrofe. Al riguardo ricordo che, nella sua celeberrima opera, alla diffusione del morbo e alle sue tragiche conseguenze sono dedicate pagine fra le più belle. Questo procedimento giudiziario in origine avrebbe dovuto essere parte integrante dei Promessi sposi, per la precisione in quella parte del libro appunto dedicata alla peste, ma la sua caratteristica di digressione, non disgiunta dalla non trascurabile lunghezza, indusse l’autore a non includerla nel romanzo, sia per evitare uno squilibrio, sia nel timore di disorientare i lettori. E fu così perciò che questo saggio storico ebbe una destinazione autonoma, cioè come di lavoro destinato a una pubblicazione a sé stante, anche se, abbastanza di frequente, capita che gli editori la propongano al termine dei Promessi sposi, in un unico volume. In Storia della colonna infame Manzoni scrive appunto di questo processo, avvenuto a Milano nel 1630, contro Guglielmo Piazza, commissario di sanità, e Gian Giacomo Mora, barbiere, accusati da Caterina Rosa, definita dallo stesso autore “donnicciola” del popolo, di aver provocato il morbo e la sua diffusione con strane misteriose sostanze con le quali venivano unti i muri e le porte delle case, e da qui il termine di “untori” attribuito ai due disgraziati. Sottoposti a torture, confessarono benché innocenti, e furono condannati alla pena capitale, preceduta da altre crudeltà che solo a pensarci fanno rabbrividire. Fra le pene accessorie ci fu anche la distruzione della casa del barbiere, sulle cui rovine, a perpetuo monito, venne eretta una colonna, chiamata “colonna infame”, che nel 1778 fu abbattuta, a parziale riabilitazione dei condannati, stante che eventualmente l’infamia avrebbe dovuto essere attribuita a chi li giudicò. La vicenda, in sé interessante, non sarebbe tuttavia meritevole di particolare attenzione se non si guardasse al punto di vista del Manzoni, al suo grande senso di pietà, ma anche alla sua disamina di carattere morale. Vero è che erano tempi difficili, che il morbo si propagava incontrollato, che l’ignoranza del popolo creava e costruiva superstizioni, ma chi aveva istruzione non avrebbe dovuto credere che la peste fosse una creazione di due uomini, volta, non si sa per quale motivo, ad annientare la popolazione. Com’è possibile che i giudici prestassero fede alla linguaccia di una donnicciola, avviando un’indagine che con i primi arresti indusse il popolo a credere che potessero esistere gli untori, in una frenesia collettiva che reclamava sangue per riparare ad altro sangue versato? L’analisi che del fatto fa Manzoni è sì storica, ma anche giuridica, psicologica, sociologica e politica. In questi giudici non solo è assente la pietà, ma manca anche il buonsenso; inoltre, al servizio dei potenti, incapaci di arginare il morbo, nel timore di una ribellione cercarono di trovare il cosiddetto capro espiatorio in due poveri innocenti. Fuori da ogni logica inventarono un processo, diedero in pasto a gente esasperata i presunti autori delle loro disgrazie, senza un minimo di coscienza, tesi solo a soddisfare il ventre molle di un popolo inferocito. Dopo l’esecuzione della sentenza la peste continuò a divampare e nessuno pensò che in fondo non c’erano più gli untori, ma intanto la tensione che prima cresceva ogni giorno era sbollita nelle urla strazianti dei condannati torturati sulla pubblica piazza. Quei giudici sapevano quello che facevano, sapevano cosa dare al popolo affinché si placasse, quel che non sapevano è che l’infamia non era dei condannati, ma solo loro. Il libro è veramente stupendo e credo che sarebbe opportuno che fosse oggetto di studio nelle scuole; non aggiungo altro, se non il consiglio di leggerlo.
Un classico della nostra letteratura, forse ancora poco letto, appassionato nel tono e agghiacciante nei contenuti, utile a far cambiare idea a chi ritiene Manzoni un autore consolatorio e aproblematico. Nell'analizzare con rigore e precisione, che ne fanno un degno erede di Verri e Beccaria (e precursore di altri scrittori di grande impegno civile come Sciascia), le dinamiche dello scandaloso processo agli "untori" della Milano del 1630, Manzoni affronta i temi della responsabilità morale e individuale, non solo dei giudici ma di tutti coloro che furono coinvolti nella vicenda, e degli spazi possibili di autonomia del singolo nel sistema costrittivo di credenze e convinzioni della sua epoca.
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