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Le prime frasi del romanzo:
Giorno di febbre
Appena arrisbigliatosi, decise di telefonare in commissariato per evvertire che quel giorno proprio non era cosa, non ce l'avrebbe fatta ad andare in ufficio, durante la nottata una botta d'influenza l'aveva assugliato e li vedi solo quando già ti hanno azzannato alla gola. Fece per susìrisi, ma si fermò a mezzo, le ossa gli dolevano, le giunture scricchiolavano, dovette ripigliare il movimento con quatèla, finalmente arrivò all'altezza del telefono, allungò il braccio e in quel preciso momento la suoneria squillò.
"Pronti, dottori? Parlo con lei di pirsona pirsonalmente? Mi arriconobbe? Catarella sono."
"Ti arriconobbi, Catarè. Che vuoi?"
"Nenti voglio, dottori."
"E allora perché mi chiami?"
"Ora vengo e mi spiego, dottori. Io di pirsona pirsonalmenti non voglio nenti da lei, ma c'è il dottori Augello che ci vorrebbe dire una cosa. Che faccio, ci lo passo o no?"
"Va bene, passamelo."
"Ristasse al parecchio che ci faccio parlari."
Passò mezzo minuto di silenzio assoluto. Montalbano venne scosso da un arrizzone di freddo. Malo signo. Si mise a fare voci dintra la cornetta.
"Pronto! Pronto! Siete morti tutti?"
"Mi scusasse, dottori, ma il dottori Augello non arrisponde al parecchio. Se porta pacienzia, ci vado io di persona pirsonalmente a chiamarlo nella sua cammara di lui."
A quel punto, intervenne la voce affannata di Augello.
"Scusami se ti disturbo, Salvo, ma..."
"No, Mimì, non ti scuso" fece Montalbano. "Stavo per telefonarvi che oggi non me la sento di nèsciri da casa. Mi piglio un'aspirina e me ne vado nuovamente a caricarmi. Quindi te la sbrogli tu, quale che sia la facenna della quale volevi parlarmi. Ti saluto."
Riattaccò, restò tanticchia a pinsare se staccare il telefono, poi decise per il no. Andò in cucina, s'agluttì un'aspirina, ebbe un altro arrizzone di freddo, ci pinsò sopra, si agluttì una seconda pillola, si rimise a letto, pigliò in mano il libro che teneva sul comodino e che aveva principato la sera avanti a leggere con gusto, Un giorno dopo l'altro di Carlo Lucarelli, lo riapèrì e fin dalle prime righe si fece pirsuaso che la lettura non gli era possibile, si sentiva un cerchione di ferro torno torno alla testa e gli occhi gli facevano pupi pupi.
"Vuoi vedere che mi sta acchianando la febbre?" si spiò. Poggiò il palmo della mano sulla fronte, ma non arruscì a capire se era càvuda o no, del resto non l'aveva mai capito, quello era un gesto solo simbolico che però, inspiegabilmente, faceva sempre. L'unica era mettersi il termometro. Si susì a mezzo, riaprì il cascione del comodino, rovistò. Naturalmente il termometro non c'era. Dove l'aveva messo? E quando era stata l'ultima volta si era misurato la febbre? A occhio e croce, doveva essere capitato a dicembre dell'anno passato, che per lui era il mese più periglioso e non quell'altro che diceva il poeta... Quale mese per Eliot era il più crudele? Si, ora se l'arricordava, aprile è il più crudele dei mesi... O era marzo? Ma comunque, a parte le divagazioni poetiche, dove minchia era andato ad ammucciarsi il termometro? Si susì, andò nell'altra cammara, taliò in ogni cascione, nelle librerie, in ogni pirtuso. Da darré una pila di libri in equilibrio precario sopra un tavolinetto traballero spuntò fora una sua fotografia con Livia. La taliò, non arriscendo a ricordare dove se l'erano fatta. Da com'erano vistuti, doveva essere estate. In secondo piano si vedeva la sagoma di un omo in divisa, ma non pareva cosa di militare, doveva trattarsi di un portiere d'albergo. O di un capostazione? Lasciò perdere la foto e ripigliò a cercare.