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Le prime pagine del romanzo
Cristina si volta di scatto perché un gabbiano le passa a pochi centimetri dalla testa stridendo forte. Rimane immobile qualche istante davanti alla porta di casa e si guarda intorno: a parte il grido dell’uccello, la cui eco si perde in lontananza, non c’è un rumore.
Appoggia lo zaino sull’erba e cerca le chiavi nella tasca: è sfinita, ha bisogno di un bagno caldo e di cambiarsi.
Tutto è fermo. Che strana sensazione di spaesamento… Cristina la attribuisce alla notte insonne e a ciò che è successo ieri durante l’escursione al Perito Moreno.
Nonostante le raccomandazioni al gruppo di rimanere uniti, un turista si era allontanato avventurandosi nel ghiacciaio per conto suo. Solo alla fine della gita, quando i partecipanti si sono seduti sui panchetti per togliersi i ramponi, Cristina li ha contati di nuovo e si è accorta che ne mancava uno. È tornata indietro a cercarlo, l’ha chiamato per nome rifacendo diverse volte il percorso e infine ha avvertito i soccorsi.
L’uomo era scivolato in un crepaccio e lei, sentendosi responsabile per averlo perso di vista, ha insistito per farsi imbracare e scendere a salvarlo. Fortunatamente, un blocco di ghiaccio aveva arrestato la caduta a pochi metri dal bordo e il turista era ancora vivo, anche se semiassiderato. Mentre il gruppo dormiva in albergo a El Calafate, Cristina è rimasta in ospedale tutta la notte senza chiudere occhio e, quando al mattino l’uomo è stato dichiarato fuori pericolo, ha organizzato la partenza del gruppo in aereo per tornare a Buenos Aires, mentre lei rientrava a Ushuaia.
L’incidente l’ha sconvolta, è il primo che capita da quando fa la guida nei ghiacciai della Patagonia. Durante la notte ha ripercorso mentalmente tutte le fasi della gita, alla ricerca del momento di disattenzione in cui l’uomo è scomparso. Di solito prima di partire per l’escursione osserva attentamente i partecipanti, imprimendosi nella memoria qualche dettaglio fisico o dell’abbigliamento di ciascuno. Come ha fatto a perderlo di vista? Non si perdona la propria leggerezza: deve parlarne con il padre, che le ha insegnato a essere intransigente innanzitutto con se stessa.
“Tu non puoi sbagliare, Cristina” le ripete quando lei ha un dubbio, quando deve compiere una scelta, quando teme di aver commesso un errore.
“Ma tutti sbagliano prima o poi…” prova a controbattere lei.
“Non tu! Non con quello che ti ho insegnato, non per come ti ho educata, tu sei il mio capolavoro!”
Rinuncia al bagno caldo e non entra in casa, preferisce andare a cercare suo padre subito in ufficio, all’ultimo piano dell’Hotel Estrella, l’albergo di sua proprietà a Ushuaia. È un ambiente spazioso, illuminato da una grande vetrata che dà sul canale di Beagle. Quando va a trovarlo, spesso lo vede di spalle, apparentemente immerso nella contemplazione del mare, delle barche ancorate, del movimento di pescatori e scaricatori di porto che da quell’altezza sembrano formiche che hanno perso l’orientamento. Gli arriva accanto e percepisce che è lontano da lì, lontano da quel mare e quel porto. Lontano da lei. Gli tocca il braccio perché si volti e ha l’impressione che suo padre riemerga da un altro mondo, con l’aria stordita e ombre scure nello sguardo.
Appena la scorge, il volto di Roberto si addolcisce, gli occhi sorridono alla sua niña, come ancora la chiama nonostante Cristina abbia ventotto anni. Le scioglie il nastro con cui lei raccoglie i capelli per comodità e li accarezza mentre la ascolta.
Quando era piccola, la voce cantilenante di bambina che gli raccontava di un gioco, un voto, un compagno, lo faceva sentire in pace. Le aveva dato il permesso di arrivare a qualsiasi ora ed entrare nella stanza senza bussare. Le scaldava fra le sue le mani gelate, le tirava giù il cappuccio perché uscissero i lunghi capelli castani che le chiedeva di non tagliare, ordinava per lei una cioccolata calda. “La mia bambina… la mia niña…” ripeteva, sempre sorpreso dal colore degli occhi di Cristina, azzurro intenso come i suoi, anche se non era sua figlia.