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Anno edizione: 1991
Anno edizione: 2021
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«Poesia è l’arte di caricare ogni parola del suo massimo significato» scrisse Pound una volta – e Simone Weil: «che ogni parola abbia un sapore massimo». Sono regole convergenti a cui Cristina Campo sempre si attenne, con lo scrupolo fin troppo crudele che le faceva dire di sé: «Ha scritto poco e le piacerebbe aver scritto meno». Così tutta la sua opera in versi è racchiusa in questo libro, che in gran parte si compone di traduzioni, come l’opera in prosa sta tutta negli Imperdonabili. Dopo una esile raccolta del 1956, Passo d’addio, che ci offre insieme la fragranza di una voce che si scopre e un presagio del duro rigore della Campo, da sempre dedito «a insolubilmente saldare / a inguaribilmente separare», le sue poesie sono tutte sparse, fino al poemetto Diario bizantino, che apparve pochi giorni dopo la sua morte. E forse da questi ultimi versi, come da una specola vertiginosa, da un «mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo, / inenarrabilmente ignoto al mondo», occorrerebbe partire per capire tutta Cristina Campo. Da questo osservatorio ormai inaccessibile capire come per lei il senso acuminato dello stile si proiettasse sul fondale di un altro cielo, là dove traluce «la Bellezza a doppia lama, la delicata / la micidiale», l’unica che la toccasse e di cui finì per riconoscere i simulacri soltanto nel respiro iconico della liturgia bizantina. A nulla della poesia italiana del nostro tempo possono essere avvicinate queste liriche, ma piuttosto a Simone Weil e a John Donne, a Hofmannsthal e a W.C. Williams, a Herbert e a Juan de la Cruz, tutti autori dei quali la Campo ha lasciato traduzioni che sono altrettanti esercizi di metafisica simbiosi.
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Appare come un processo nuovo e lento, quello che Cristina Campo compie al fine di riappropriarsi di qualcosa (un miscuglio tenace di verità scoperte e di ricordi, legati in particolar modo all'infanzia, recuperati ed integrati, con amorevole fantasia, laddove essi si rivelano inadeguati poiché difettano di Grazia o di Bellezza) che, in realtà, è in suo possesso già da molto tempo (perché sono verità che la scrittrice ha a lungo meditato, dopo averle riportate alla luce con tenaci e coraggiose operazioni di scavo, ed averle punite, con certosina ed amorevole cura, dal fango e dalla polvere). Appare, dicevo, ma si tratta, appunto, soltanto di apparenza, poiché, nel momento in cui le parole si manifestano, stampate, sulla carta del libro (raggiungendo, in questo modo, una condizione oramai irreversibile: nate, non possono essere più ignorate/cancellate), i rapporti che le legano le une alle altre acquistano carattere di necessità (così come è necessità la scrittura, solo mezzo che la Campo conosce per congedarsi da certi insistenti pensieri), rivelando che esse erano state pensate (e quindi esistevano) in quella precisa forma ancor prima d'essere scritte. Ogni lettera diviene, dunque, un segno inciso dalla Campo sulle pietre che stringono il sentiero che stiamo percorrendo: seguendo le lievi tracce lasciate dai suoi piedi (e la scia disegnata dalle perle amaranto di una collana rotta, gocce di sangue che, stilate dalle sue mani, la terra ha già quasi completamente assorbito), entriamo in un universo abitato da fate, da santi, da dei, da scrittori (scrittori che sono un po' santi ed un po' dei), in un labirinto di specchi costruito con metodo e misura (la lingua raggiunge un equilibrio perfetto e miracoloso), raccontato con una passione esaltata e totale, con un incanto terrificante e spaventoso che vuol essere il primo passo verso il distacco dal mondo e dalle cose terrene. Un capolavoro, signori e signore: la regina della parola.
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