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Anno edizione: 2020
Anno edizione: 2015
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Ho letto molti pareri fortemente contrastanti fra loro su Curzio Malaparte e sulle sue opere, dunque era tempo di farmi una mia idea. Sinceramente, i libri di guerra non sono fra le mie preferenze, troppo crudi e violenti, e questo non ha fatto eccezione. Eppure qui ho trovato delle velleità letterarie importanti, oltre che la semplice voglia di cronaca di un tempo (Malaparte era un giornalista), condite non poco di fiction e di parallelismi singolari. Consigliato agli amanti del genere
Riguardo al corpo, potrebbe lecitamente asserire un anticosmico feroce (per esempio un buddhista aderente al canone p?li o un lovecraftiano della prima ora) che sotto la pelle che lo ricopre pullula un mondo verminoso di visceri, sangue, umori e frattaglie varie, e che se non fosse per quel sottile strato l’uomo vivrebbe circondato da indicibili e insostenibili orrori, lui stesso orrore che cammina. In tal senso, la pelle è una forma di somma misericordia concessa all’uomo dimentico: misericordia per i dormienti (i più), condanna per gli altri (i meno). Malaparte, a suo modo, e tuttavia a un livello ancora poco meno che superficiale, solleva tale cortina quel tanto che basta per mostrare il dolciastro putridume che, sempre, vi si cela.
Se Kaputt può essere definito un libro crudele, La pelle invece può essere considerata un’opera allucinante, tanto è spinto all’estremo il desiderio di Malaparte di descrivere, in una Napoli prostrata e affamata dalla guerra, la prepotenza dei liberatori che come una peste divora gli abitanti spingendoli, per sopravvivere, a barattare l’unico bene che possiedono, il loro corpo. Certo nello scrittore toscano, che ricordiamo fascista della prima ora e poi, con il trasformismo che quasi sempre ci caratterizza, diventato ufficiale di collegamento con le truppe alleate, alberga un fondo di risentimento per gli antichi nemici che lo porta anche a eccedere nel descrivere le loro nefandezze, sovente estremizzate da una fantasia che intende rappresentare, attraverso il surreale, una realtà oggettiva di autentico e disperato squallore. Nel libro, infatti, incontriamo episodi di pedofilia, di orge sfrenate omosessuali e, poiché al peggio non c’è mai limite, anche di cannibalismo. Ma se nel comportamento della popolazione, in questo loro cedere a un ricatto che toglie ogni dignità, c’è la giustificazione del bisogno primario di riempire stomaci vuoti, nei vincitori invece c’è la frenesia di dimostrate la loro potenza economica, tale da soddisfare anche necessità che in altre occasioni e in altri luoghi non sarebbero emerse; anche loro annullano la propria dignità, ma in fin dei conti sono i peggiori, poiché non rispondono in questo alla necessità di soddisfare esigenze inderogabili; i vincitori appaiono così come degli dei a cui tutto è possibile e a cui tutto è concesso. Aleggia uno spirito di morte, ma non di morte del corpo, bensì dell’anima, un senso di putrefazione dei sentimenti e della dignità reso in modo splendido, e pur tuttavia Malaparte, forse conscio che alla lunga il lettore, dapprima stupito e poi annichilito, potrebbe arrivare a chiudere il libro schifato da tante oscenità, ha il pregio di alternare passi che oserei definire di autentica poesia, come quello che segue e che parla di quella che una caratteristica nota in tutto il mondo della città partenopea: “Simile a un osso antico, scarnito e levigato dalla pioggia e dal vento, stava il Vesuvio solitario e nudo nell’immenso cielo senza nubi, a poco a poco illuminandosi di un roseo lume segreto, come se l’intimo fuoco del suo grembo trasparisse fuor della sua dura crosta di lava, pallida e lucente come avorio: finché la luna ruppe l’orlo del cratere come guscio d’uovo, e si levò estatica, meravigliosamente remota, nell’azzurro abisso della sera. Salivano dall’estremo orizzonte, quasi portate dal vento, le prime ombre della notte. E fosse per la magica trasparenza lunare, o per la fredda crudeltà di quell’astratto, spettrale paesaggio, una delicata e labile tristezza era nell’ora, quasi il sospetto di una morte felice.” Mentre leggevo il libro mi sono ricordato di una pellicola di Pier Paolo Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma, che per certe scene richiama La pelle; ebbene il film è un macabro apologo del potere che dilania se stesso e forse Malaparte è quello che ha inteso dimostrare, cogliendo nei vincitori, e quindi nei detentori del potere, quel senso di immaturità che è propria degli uomini che, beneficiati da successi, si credono capaci di tutto, scandendo quasi a rotta di collo nella scala dell’abiezione e finendo così con l’essere i perdenti di se stessi. Nella pellicola sono rappresentati gli ultimi bagliori di un potere agonizzante, nel libro invece sono descritti i deliri di un potere trionfante, ma è questa l’unica differenza, poiché il potere in entrambi i casi corrode gli uomini che lo detengono e quindi una società è sana e salva solo se non c’è chi ha più potere degli altri, o comunque se a chi comanda sono delegati poteri ben limitati che fa sentire i detentori servi al servizio della comunità e non padroni. Pur con qualche riserva, in particolare per chi non sopporta scene sgradevoli, che tuttavia sono funzionali all’opera, La pelle è un libro senz’altro consigliato, perché è unico sotto tutti gli aspetti e a patto di tener conto del fine per cui è stato scritto.
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