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Anno edizione: 2019
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Quale è stato il momento in cui si è spezzato il rapporto di fiducia fra i cittadini e i media? Come sono fatti i contratti giornalistici? Quanto viene pagato un giornalista oggi? E per fare cosa?
Uno dei problemi dell’informazione oggi è l’ossessione per la quantità e per la velocità, la convinzione che il giornalismo debba competere con i social. Un altro modello di business: tanta attenzione per gli inserzionisti pubblicitari, poca per i lettori. Il mantra del “fare tanti click sul sito”, la monetizzazione a ogni costo con la pubblicità, la convinzione che nessuno sia disposto a pagare per il giornalismo digitale hanno contribuito a erodere gli spazi di crescita. A partire da queste considerazioni e guardando, fra l’altro, alla lezione del professor Peter Laufer, autore di Slow News – Manifesto per un consumo critico dell’informazione, e a esperienze locali, nazionali e internazionali, questo libro fa un tentativo: quello di andare oltre la semplice critica. Slow Journalism cerca di proporre soluzioni. Daniele Nalbone e Alberto Puliafito hanno una lunga esperienza nel giornalismo tradizionale e soprattutto in quello digitale, condividono una visione del mestiere – e forse anche del modo in cui ci si dovrebbe approcciare al lavoro e alla vita – che li ha portati a indagare su questo tema. Un libro cruciale sia per gli addetti ai lavori sia – soprattutto – per i lettori.
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“Pensa a un piano B“. Sono passati ormai 6 anni da quando il grande giornalista Enrico Mentana aveva consigliato (in questo intervento) ai giovani apprendisti giornalisti di tenersi aperta un’alternativa alla propria passione per il fare giornalismo. E’ passato più di un lustro da quell’affermazione, ma se sbirciamo dietro le quinte di giornali (online e cartacei), all’interno delle redazioni giornalistiche odierne e dentro il circuito professionale che ruota attorno al raccogliere, analizzare, confezionare e divulgare una notizia (che sia di cronaca, cultura, un reportage e così via), possiamo ancora oggi comprendere come il giornalismo sia in crisi e debba compiere un importante passo per sopravvivere e camminare a testa alta ai giorni nostri. Sì, perchè, tenendoci alla larga da ogni forma di pessimismo, una “rianimazione” del giornalismo sembra potersi compiere e ce ne parlano i due giornalisti Daniele Nalbone e Alberto Puliafito (che abbiamo avuto l’onore di intervistare qui) nel loro libro edito Fandango Libri dal titolo “Slow Journalism. Chi ha ucciso il giornalismo?“. Dopo una serie di ipotesi per trovare un possibile colpevole della morte del giornalismo così come lo conosciamo oggi (con un orientamento ancora puntato sul vecchio modello di business), dalla ricerca e fruizione di contenuti dal titolo acchiaclick alla circolazione smodata di fake news e da un (pressante) compromesso tra giornalismo e pubblicità, i due autori ci propongono una nuova visione di giornalismo che ha a che vedere con la parola slow: lento, pulito, giusto. "Slow è un modo di essere, un metodo di lavoro. […] Essere slow significa che i contenuti vanno pubblicati quando sono pronti, non per riempire spazi. […] Essere slow journalist è una forma di attivismo, […] un’azione concreta che può cambiare in senso positivo il mondo. […] Bisogna produrre meno e farlo meglio. Bisogna trovare nuove leve per essere sostenibili e rimettere la qualità al centro di un progetto che deve tener presente ‘solamente’ i contenuti e le persone". “Informare è contribuire alla crescita sociale, economica, umana della popolazione” rimarcano Nalbone e Puliafito, mentre “disinformare è l’esatto contrario: è dar vita a sacche di ignoranza che diventano crudeli, al limite del disumano”. E proprio per questa ragione il giornalismo deve in un certo qual modo nobilitarsi, produrre contenuti di qualità che vadano oltre “la commozione, lo stupore, le emozioni che rischiano di aver poco a che vedere con le notizie” e che rifuggano dall’istantismo, la tendenza del “tutto e subito”. “Il giornalismo non è morto. E non morirà finchè ci saranno notizie e storie da raccontare” ci rassicurano Daniele Nalbone, nato professionalmente nella redazione di Liberazione ora collaboratore nella veste di giornalista e consulente editoriale per diverse testate nazionali; e Alberto Puliafito, fondatore e direttore di Slow News, ma attivo nella realizzazione di documentari, cortometraggi, programmi televisivi e nel campo della comunicazione e della formazione. Ma, riavvolgendo la pellicola, ha senso aggirarsi come un detective alla ricerca di chi ha ucciso il giornalismo se tra gli indagati ci sei anche tu? Sì, proprio tu che stai leggendo, ma anche io che sto scrivendo: “ognuno ha una sua buona dose di percentuale”. Perchè Nalbone e Puliafito non la mandano a dire, lo scrivono chiaro e tondo: "E’ colpa di chi pensa agli inserzionisti, non ai lettori. […] E’ colpa di chi fa piani editoriali da 400 articoli al giorno. […] E’ colpa di chi pensa che una tecnica sia un trucco. […] E’ colpa di chi non si ricorda che i picchi di traffico sono persone. […] E’ colpa di chi ha permesso a Google e Facebook di farsi dire da loro cosa sia la qualità. E’ colpa delle fake news sui veri giornali, che aprono la strada ai veri siti di fake news. […] E’ colpa di chi non si forma. E’ colpa di chi non si aggiorna. E’ colpa di chi fa pubblicare i pezzi di puro clickbait. Ed è colpa di chi li pubblica. […] E’ colpa di chi paga poco. E’ colpa di chi si fa pagare poco. E’ colpa di chi non paga per leggere anche se potrebbe farlo. E’ colpa di chi dà la colpa agli altri". In tutto questo, tuttavia, “Slow journalism” va oltre la sola critica: propone un nuovo metodo di concepire e leggere il giornalismo, di conquistare e ottenere la fiducia nei media, anche attraverso una serie di interviste a grandi “addetti ai lavori”. Il blog dell'editore
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