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Maria Maddalena, della celebre famiglia dei Pazzi, fu rapita dalle prime estasi all’età di sedici anni, nel 1582. La sua opera è costituita dalle parole che in tali occasioni era solita dire ad alta voce, trascritte dalle consorelle: quattro dettatrici ripetevano le frasi còlte dalla sua bocca e quattro trascrittrici le fissavano sulla carta. In questa situazione di linguaggio assoluto, dove l’eloquio ignora l’interlocutore e si rivolge soltanto a un proprio segreto, fioriscono alcune delle pagine mistiche più sconvolgenti che conosciamo. Non già – come per esempio in Teresa d’Ávila – troveremo qui un’analisi perspicua degli stati e dei passaggi fra gli stati: ma sempre un vortice di parole e immagini, che trabocca e stilla, fluendo fra le isole dei silenzi. Come scrive Giovanni Pozzi, curatore di questa antologia, che vuole restituire Maria Maddalena al suo rango altissimo fra gli autori mistici, sono «assorbimenti repentini, alienazioni totali dal mondo circostante, visioni descritte nei particolari, voltate a sensi allegorici, applicate a realtà terrene, motivate con elucubrazioni di raffinata astrattezza; sceneggiatura di fatti ultraterreni, svoltisi sulle soglie dei più alti cieli o nel fondo degli abissi infernali, intramezzate da danze, corse, agitazioni convulsive o rigidità corporee; e soprattutto lunghissimi eloqui, svolti ad alta voce, con parole veloci o scandite, sommesse o urlate, ininterrotte o intercalate da silenzi contemplativi». È una teologia negativa tutta sperimentale, dove la parola si lascia gloriosamente soverchiare: «Il maggior narrare che si possa fare di te è di rilassarsi tutto in te e annichilarsi sotto te (silenzio)».
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