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«Io son l'ultimo figlio degli Elleni: / m'abbeverai alla mammella antica; / ma d'un igneo dèmone son ebro»: è questa l'orgogliosa rivendicazione che Gabriele d'Annunzio offre di sé nel componimento alcionio La vittoria navale, a cui poi accosterà nel Commiato finale della silloge il riconoscimento di Giovanni Pascoli come «ultimo figlio di Vergilio ». Nelle superbe definizioni si condensa il significato ultimo del percorso di codificazione dell'antico compiuto dagli eredi poetici di Giosuè Carducci, il quale per primo nelle Primavere elleniche si era presentato ai lettori come «degli eoli sacri poeti / ultimo figlio». Ed ecco disegnarsi davanti al pubblico la mappa culturale del classicismo italiano di fine secolo: Lesbo per Carducci, Roma per Pascoli, la Magna Graecia per d'Annunzio. In queste patrie dell'anima si addentra il saggio «Io, ultimo figlio degli Elleni». La grecità impura di Gabriele d'Annunzio, che descrive la Grecia policroma e dionisiaca, impura e ibrida, che nelle Laudi diventa terra simbolo delle «mescolanze vietate» fra elementi culturali eterogenei, liricamente assimilati. All'insegna dell'autologia, lo scrittore pescarese rispolvera il patrimonio mitologico classico e lo porge a una nazione che brama di riscoprire nelle proprie memorie letterarie la filigrana di una identità culturale più antica di quella politica, da poco ritrovata. E così d'Annunzio accompagna la Terza Italia ad ammirare sé stessa, illuminata dallo sfolgorio del «cielo alcionio» dei miti, sorvolato prima di lui solo da Icaro.
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