Indice
Le prime pagine del romanzo
L’acqua era nera. La luna, coperta a intermittenza dalle nubi, non riusciva a illuminarla. Minuscole creste bianche dardeggiavano sulla superficie sferzata dal vento.
I quattro Zodiac avanzavano con il motore al minimo, a distanza l’uno dall’altro, producendo un basso ronzio. Si fermarono lontano dalla riva e non gettarono l’ancora. Con quella corrente non era facile evitare gli scogli, ma i timonieri erano esperti. L’isola era una massa scura circondata da un anello di smeraldo acceso dalle lanterne.
I passeggeri dei gommoni, otto per ognuno, si misero maschera e pinne e scivolarono in acqua. Nessuno scambiò una parola. Sapevano tutti cosa dovevano fare. Nuotarono silenziosi, immersi nelle tenebre, per un tempo che sembrò loro infinito. Testa sommersa, respirando con il boccaglio.
Indossavano mute Stealth che li coprivano dai polsi alle caviglie e li rendevano praticamente invisibili. Neri e letali come un branco di barracuda.
Quando giunsero in vista della spiaggia si divisero dopo essersi rivolti un muto augurio. L’isola a forma di noce di cocco misurava poche decine di chilometri. Era immersa nel silenzio, nel buio e nel sonno. Il sussurro del vento era placido e regolare come un respiro collettivo. Le uniche luci erano le lanterne a margine dei sentieri che tagliavano la vegetazione e i faretti sulle terrazze dei bungalow. Quell’intelaiatura di punti luminosi rappresentava la stella polare dei trentadue subacquei.
Gli uomini nuotavano controcorrente sfidando le onde. Erano muscolosi, allenati e motivati. Si erano addestrati per mesi, il fallimento non era un’opzione contemplata. Avevano studiato l’area, la destinazione, i bersagli. Soppesato i pericoli e gli strumenti per neutralizzarli. L’unica variabile con un margine di residua imprevedibilità era il meteo. La stagione dei monsoni era finita, ma si era lasciata dietro una coda di vento fastidioso. Appesantiva gambe e braccia, rallentava i movimenti.
Il primo componente della prima squadra arrivò a destinazione in dodici minuti.
La palafitta di legno aveva una scaletta con i gradini più bassi nell’acqua. Un accesso diretto al reef che si sarebbe trasformato in una trappola di morte, notò l’uomo soddisfatto. Era una overseas villa, una delle cinque più lussuose del resort. Un grappolo di casette di legno semplici solo all’apparenza, intorno a un pontile che si protendeva nell’oceano per duecento metri. A parte quel cordone ombelicale, isolate e remote.
Sullo sfondo, l’isola era un’ombra.
L’intreccio di mangrovie minaccioso come un groviglio di serpenti velenosi.
Spinto da un’ondata più forte delle altre, l’uomo scivolò sulle alghe sbattendo contro uno scoglio semisommerso. Gli sfuggì un’imprecazione e si immobilizzò in attesa di capire se il rumore avesse svegliato gli occupanti. Non accadde nulla. Stavolta il vento gli si era rivelato amico: il suo fischio e il ruggito del mare avevano coperto la caduta.
Depose pinne e maschera sul primo gradino. Gli sarebbero servite per il ritorno. Estrasse la Glock 9 millimetri dal contenitore a tenuta stagna legato alla vita e controllò che fosse davvero asciutta e intatta. Lo era: la bustina impermeabile, concepita per immergere i telefonini, funzionava alla perfezione. Uscì dall’acqua, scuro e grondante, e si vide riflesso nella vetrata della camera. Una figura estranea e spaventosa per chi l’avesse scorta. Ma gli occupanti dormivano della grossa. Forse stanchi dopo una giornata tra i coralli, forse ancora storditi dal jet lag. I suoi occhi scrutarono l’interno della stanza.
Intravidero mobili di legno massiccio, una tv a cristalli liquidi appesa alla parete, asciugamani bianchi gettati a terra. Sul tavolino, gli avanzi della cena: una bottiglia mezza vuota di Merlot, fette di mango e anguria, lische di quello che era stato un grosso pesce.
Nel grande letto due corpi dormivano allacciati.
L’uomo si voltò all’indietro in cerca di rassicurazioni. Ma i gommoni erano da qualche parte, lontani, e i timonieri attendevano il loro ritorno. Poteva solo sperare che tutto stesse andando come il piano prevedeva. Colse un guizzo sotto il pontile. La sagoma inconfondibile di uno squalo. Un innocuo “pinna nera” lungo un metro e mezzo che sciabolava sotto la luce in cerca di pesci. Si chiese come avrebbe reagito trovandoselo di fronte in acqua, se il panico lo avrebbe assalito. Scrollò le spalle: erano due predatori, destinati a capirsi.
Muovendosi come un gatto, l’uomo provò ad aprire la porta finestra, ma era chiusa dall’interno. Toccò il piccolo pendente d’oro che teneva al collo, legato a una catenina, e lo baciò. Il suo bagliore brillò fioco alla luce del lampione, poi scomparve di nuovo sotto la muta. L’uomo mormorò qualche parola a fior di labbra. Raccolse un telo di spugna dalla sdraio sulla terrazza. Lo avvolse intorno al braccio sinistro e con un colpo secco sfondò la vetrata.