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Anno edizione: 2019
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«Il nome di Fernando Pessoa esige di venir incluso nella lista dei grandi artisti mondiali nati nel corso degli Anni Ottanta: Stravinskij, Picasso, Joyce, Braque, Chlebnikov, Le Corbusier». Così ha scritto Roman Jakobson. Ma se, nel caso degli autori citati, l’opera è più che nota, nel caso di Pessoa le scoperte e le sorprese sembrano non finire mai: dopo la sua morte (1935), fino a oggi, dal baule prodigioso dei suoi manoscritti sono continuati a uscire testi che rendono sempre più intricato e vertiginoso il mondo di questo scrittore, di cui si può dire – ed è una pura constatazione – che più che uno scrittore fu un’intera letteratura.
Si immagini infatti un Paese (il Portogallo) che vive per vent’anni (dal 1914 al 1935) un’età dell’oro della letteratura: poeti, saggisti, prosatori, dalle fisionomie inconfondibili e a volte incompatibili, tutti però di altissima qualità, vi operano insieme, si incontrano, si scontrano. Uno sperimentatore violento e straripante, suscitatore di avanguardie, come Álvaro de Campos, un desolato nichilista come Bernardo Soares, un poeta metafisico ed ermetico come Fernando Pessoa, un neoclassico come Ricardo Reis e, dietro a tutti, un maestro precocemente scomparso: Alberto Caeiro. Ebbene: tutti questi autori, tutte queste opere, tutti questi destini furono «una sola moltitudine», perché nascevano tutti dall’invenzione dissociata e proliferante di una sola persona, l’anagrafico Fernando Pessoa, oscuro impiegato di una ditta di Lisbona, dove aveva l’incarico di scrivere lettere commerciali in inglese. E quelli che abbiamo citato sono solo i più importanti fra gli scrittori ‘inventati’ da Pessoa: finora i suoi manoscritti hanno rivelato tracce e frammenti di ventiquattro autori.
«Sii plurale come l’universo!» sembra essere stato l’imperativo unico di Pessoa. Nato con una «tendenza organica e costante alla spersonalizzazione e alla simulazione», Pessoa ha spinto quella pratica della dissociazione che è all’origine di tutta la letteratura moderna, ma anche del pensiero (e Pessoa si trova al temibile crocicchio delle due forme), alle sue conseguenze più estreme e paradossali, trascinandoci «fra anime e stelle, attraverso la Foresta delle Paure», in un luogo misterioso (Pessoa stesso) dove «in ogni angolo c’è un altare a un dio differente». Ma le Odi sontuosamente pletoriche di Álvaro de Campos come le criptiche liriche rosacrociane di Pessoa ortonimo come le angosce statiche di Bernardo Soares dipendono tutte da uno stesso punto occulto: la certezza che la vita non basta, e che quella mancanza è traversata da una lama metafisica: «manca sempre una cosa, un bicchiere, una brezza, una frase / e la vita duole quanto più la si gode e quanto più la si inventa». Con implacata lucidità, Pessoa ha voluto inventarla sino all’estremo limite. Ironico fino in fondo (le sue ultime parole furono: «Datemi i miei occhiali»), accennò una volta anche all’utilità pratica del suo invisibile delirio: «Trasformandomi così, come minimo in un folle che sogna ad alta voce, come massimo non in un solo scrittore, ma in tutta una letteratura, anche se ciò non servisse che a divertirmi, il che sarebbe per me già tanto, contribuisco forse a ingrandire l’universo, perché colui che, morendo, ha lasciato scritto un solo verso bello ha reso i cieli e la terra più ricchi e più emotivamente misterioso il fatto che esistano stelle e gente».
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In Portogallo, paese natio dell’autore di questo affascinante scritto, il periodo 1914-1935 è stato contrassegnato come l’età dell’oro della letteratura: poeti, saggisti e prosatori operano insieme e si incontrano, si scontrano. Fernando Pessoa appare come un poeta metafisico ed ermetico, il quale si è speso per la pratica della dissociazione che è all’origine di tutta la letteratura moderna, ma anche del pensiero, alle sue conseguenze più estreme e paradossali, trascinandoci in un luogo misterioso. Una citazione dal libro: il poeta è un fingitore, finge così completamente, che il fingere diventa doloroso, un dolore che realmente esiste e sente. Leggetelo.
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