Le prime frasi
PARTE PRIMA
L'UOMO DELL'UBANGHI
I
Il treno si mise in moto con una scossa brusca e Maudet, frenato nella sua corsa, si trovò per un attimo addossato alla parete del corridoio, vicino al nero soffietto a fisarmonica che collegava due carrozze. Allora, la viscosità della parete, che in quella piovosa notte d'ottobre sembrava trasudare un che di grasso e di freddo, gli entrò nelle dita, nella pelle, nella memoria, e sarebbe rimasta per sempre associata, nella sua mente, all'idea di un treno notturno.
Ne era consapevole, e proprio questo rendeva quell'attimo così esaltante. Arrivò persino a immaginare che un giorno, divenuto ormai un personaggio importante, dovendo attraversare i vagoni di terza classe per andare dal vagone letto al ristorante, avrebbe fatto scorrere furtivamente le palme delle mani ben curate sulle pareti nella speranza di rivivere la stessa sensazione.
Il passaggio era ostruito da fagotti e valigie sconquassate, tenute insieme con lo spago; ogni tanto una folata di aria gelida entrava all'improvviso da un finestrino lasciato aperto; fuori cominciavano a scorrere luci violente, una cabina di scambio, una lampada accecante sopra un tratto di binario in riparazione, i lampi azzurrini di una fiamma ossidrica. Più in alto, sopra il fossato lungo il quale correva il treno, alcune finestre erano debolmente illuminate sulla fiancata di case a picco e un autobus bianco e verde si arrampicava su per la salita. Poi il treno si infilò a tutta velocità in un tunnel e Maudet respirò avidamente l'odore della terra bagnata e della fuliggine. Ancora uno, due vagoni da attraversare, avanzando a zig zag come un ubriaco: volti appena intravisti dietro i vetri, volti pallidi e malaticci che affioravano in quella luce polverosa, un'umanità dagli occhi spenti o fissi, o rassegnati, e che la notte, il treno e quella fuga verso chissà dove rendevano patetica.
Procedeva in fretta. Posò finalmente la mano sulla maniglia di ottone, e cercò con gli occhi Lina che, pur guardando dritto davanti a sé, avvertì la sua presenza ancor prima di vederlo, trasalì, e girò di scatto la testa sorridendo.
"Vieni..."
Non aveva bisogno di fargli domande. Nei suoi occhi leggeva la gioia, l'orgoglio. E vedeva le sue dita fremere d'impazienza mentre lei afferrava la valigia di fibra posata sul ripiano sopra di lei.
C'erano ironia, pietà e un'ombra di disprezzo in quell'ultimno sguardo che lui lasciò cadere su quelli che sarebbero dovuti essere i loro compagni di viaggio: tre marinai di Cherbourg, estenuati da una licenza di quarantott'ore a Parigi (uno di loro, poi, era così livido che sembrava sul punto di vomitare); una contadina sui cinquant'anni, vestita di nero, calma, grave, immobile per tutta la notte, entrambe le mani posate su una sporta di vimini, anch'essa nera, che teneva stretta in grembo; una ragazza madre, infine, senza cappello, con gli occhi slavati, che apriva già la camicetta su un seno al quale avvicinava la testa di un minuscolo lattante.
Davanti a loro, Lina non osò far domande. Michel non le aveva detto dove pensava di andare. Quando erano arrivati alla Gare Saint-Lazare, avevano fatto una gran corsa lungo il treno, che non finiva mai. I vagoni di terza classe erano in testa. Senza rallentare, Maudet continuava meccanicamente a girarsi per tenere d'occhio le lancetta del grande orologio sospeso nel vuoto.
"Su, sali..."
L'aveva issata sul predellino scivoloso. Il corrimano di ottone era bagnato e impregnato di polvere di carbone.
Gli altri viaggiatori, già stanchi, si erano sistemati per la notte. Lina si era seduta, ma Michel, in piedi, li aveva guardati, con le pupille improvvisamente ridotte a una capocchia di spillo, il volto come assottigliato, i lineamenti più mobili. E da un impercettibile fremito delle narici, lei aveva capito.
Dov'era andato, da dove tornava con quell'aria trionfante?
"Vieni..."