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Anno edizione: 2014
Anno edizione: 2018
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La bassezza umana, rappresentata in questa storia grottesca e squallida, è fin ora la più cruda che abbia letto scritta da lui. E' vero che Simenon ha da sempre abituato il lettore a finali neri, dove non c'è speranza di salvezza neanche per sbaglio, ma stavolta davvero i protagonisti sono quanto di più nero si possa concepire e immaginare. I rapporti tra tutti i protagonisti sono allucinanti, mentre leggevo li immaginavo sempre con un ghigno malefico sulle labbra, interessati solo ed esclusivamente al proprio benessere e mai a quello di qualcun altro. Un libro unico che racchiude tutto lo spirito, tutto il malanimo e la totale sfiducia negli esseri umani che provava Simenon.
Tati Couderc è una donna che ha già varcato la soglia degli otto lustri, non bella, ma interessante e possessiva, e come tale si comporta nella proprietà di campagna, di cui ha solo il possesso, giacché la titolarità di proprietario è del suocero, il vecchio Couderc, sordo come una campana, un po’ intontito, ma di certo non insensibile all’attrattiva dell’altro sesso. Giunta in quella casa quattordicenne come serva, era stata messa incinta dal figlio del padrone che poi aveva sposato. Morto il marito, Tati era restata con il vecchio e con il figlio, ben presto rivelatosi un fior di delinquente, tanto da essere spedito in Africa in un battaglione di punizione. Avida di guadagno, aveva lavorato come una stakanovista per curare da sola la campagna, cedendo ogni tanto alle voglie del suocero. Il mondo descritto mirabilmente da Simenon è una realtà chiusa, immobile, dove predominano gli istinti primordiali senza che ci sia spazio per dei veri sentimenti. L’incontro di Tati con Jean, un giovane di buona e agiata famiglia uscito da poco di prigione, dove era stato rinchiuso per un delitto, scatena una passione febbrile, ma ci sarà un terzo incomodo nella relazione carnale fra lei e lui. Come una pentola di fagioli che bolle e che minaccia a ogni istante di far saltare il coperchio, alla fine l’amore possessivo di lei finirà con lo scontrarsi con il risveglio in lui per carni più giovani, e, come in una tragedia scespiriana, si arriverà a un drammatico epilogo, con i protagonisti perfettamente nel loro ruolo, incapaci di sfuggire al loro destino. Mi riesce difficile, ogni volta che scrivo la recensione di un libro di Simenon, trovare parole nuove, perché la perfezione non ha bisogno di tante presentazioni o elogi: è così con’è e tutti possono accorgersene leggendo. Questo mondo rurale, in cui l’orologio del tempo sembra essersi fermato, o al più andare a rilento, gli odi, le passioni che lo caratterizzano, la grettezza dei sentimenti che l’accompagnano sono espressi con un ritmo cadenzato, ma volutamente lento, una realtà che non è certo un’invenzione, ma che era effettiva allorché Simenon nel 1940 scrisse il romanzo. Poi una guerra, la ricostruzione, il predominio dell’industria sull’agricoltura hanno cancellato quella civiltà contadina che non era solo caratterizzata dai toni aspri e accesi, dalle violenze improvvise che scuotevano il torpore, ma anche dalla solidarietà, di cui possiamo avere un assaggio in queste pagine quando Tati, malata, fa vendere i prodotti del fondo a una vicina sul mercato settimanale. Ma resta questa primitività, fatta di rapporti umani più carnali che amorosi, di faide familiari, di scontri e di sangue, che Tati e Jean interpretano alla perfezione, tanto da essere indimenticabili, proprio come Simon Signoret (Tatì) e Alain Delon (Jean) nel bellissimo film del 1971 intitolato L’evaso, tratto, peraltro liberamente, da questo stupendo romanzo di Simenon.
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