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I Pensieri di Leopardi apparvero postumi nel 1845, ma erano stati scelti e ordinati da lui stesso; ad essi accenna in una lettera, poco prima della morte, come a un «volume inedito di Pensieri sui caratteri degli uomini e sulla loro condotta in Società». Molti di questi frammenti li aveva estratti dal vasto laboratorio dello Zibaldone, altri erano del tutto nuovi. Rispetto alle prime stesure zibaldoniane, intime e immediate, questi Pensieri furono sottoposti a un lavoro di sottile rifinitura stilistica, che fa loro assumere un crudele nitore, come di epigrafi incise sotto il mobile teatro della vita. Si avverte in queste pagine, scrisse Sergio Solmi, un certo carattere di «glacialità», e insieme di puntigliosa precisione nello svelare i meccanismi nei rapporti sociali e nella mente degli uomini, questi esseri «miseri per necessità, e risoluti di credersi miseri per accidente». Accanto al grande lirico della desolazione e della favolosa infanzia, c’era in Leopardi un La Bruyère avvolto da un’aura gnostica, e mai lo vediamo parlare con tanta lucidità come in queste annotazioni.
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