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«Un tempo le Muse, sotto la guida luminosa di Apollo, rispettando la funzione loro assegnata, vivevano tutte in dolce comunanza. Ma poi, durante i secoli, esse sembrarono smarrire ogni serenità e saggezza. Alcune di esse scomparvero totalmente dalla scena. Altre, tentando di occupare le terre delle loro compagne, finirono per scambiarsi arnesi e attributi. E tutto l’universo espressivo dell’età moderna è stato percorso da uno stuolo di muse inquiete, le quali, abbandonata la sede del monte Elicona in Beozia, si aggirarono nelle strade rumorose delle nostre città, a volte malate, a volte, date le necessità dei tempi, bisognose di denaro, venali».
Così Giovanni Macchia introduce questo libro, dove di «incontri fra le arti» si parla, e subito intendiamo che questi incontri avvengono alla fine di percorsi complicati e perversi, come se nella storia fosse preordinata quella stessa «inquietudine che l’autore non intende dissimulare». Sarà stato forse il progressivo sprofondare della retorica e dei canoni delle arti a rendere così avventurosi ed enigmatici questi incontri? E forse anche, al tempo stesso, il progressivo affiorare, dai primi romantici tedeschi sino a Baudelaire e a Proust, dell’idea di una «letteratura assoluta» come luogo abbagliante in cui sfocia qualsiasi attività formale?
Certo è che vi sono immagini, anche celeberrime, della pittura che sembrano esigere da noi di farle risuonare, perché siano capite, in un contesto letterario. E ci sono opere letterarie che sembrano sfociare naturalmente in immagini dipinte. Ma questi rapporti non sono mai unilineari e immediati. Piuttosto, sono una rete di provocazioni, nuances, accenti. Se la mano di un maestro ce la mostra, allora il significato di tutti gli elementi coinvolti ne appare esaltato. Così avviene in questo libro, dove alcuni pittori e scrittori fra i più amati e congeniali all’autore – da Watteau a Laclos, da Liotard a Baudelaire – vengono mostrati ogni volta come centro di risonanza dell’immagine. (Ma anche altre Muse – per esempio quelle dello spettacolo – sono convitate a questo squisito banchetto). Dall’insieme dei saggi qui contenuti si trarrà infine un’indicazione preziosa sul fondo dell’opera di Macchia: come il saggio su Liotard viene qui intitolato «Elogio della luce», possiamo trasporre quell’elogio all’autore stesso, la cui opera intera – e questo libro in modo eminente – è tutta un’appassionata ricognizione dei meandri dell’ombra perché su di essi si posi la luce dolce e netta del significato.
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