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Torino, San Salvario. Il palazzo è di quelli dignitosi e un po' severi: in passato ha ospitato, col dovuto, sobrio decoro, addirittura Quintino Sella. La buona borghesia delle professioni che ora lo abita - colta, democratica, civile - non avrebbe mai immaginato, solo un decennio addietro, di doverne dividere l'androne, le scale, le soffitte con «quei delinquenti».Si può sopportare una simile presenza che inquieta, che turba le coscienze, che modifica alla radice persino i più banali comportamenti quotidiani? Si può auspicare di non dover convivere in casa propria con immigrati clandestini e spacciatori, senza perciò sentirsi razzisti? Si può esprimere un bisogno di sicurezza, una vocazione alla legalità e al rispetto delle regole, senza per questo essere considerati xenofobi? L'autore di questo libro ha deciso di superare la ritrosia per la scrittura, e di raccontare una storia che giudica emblematica. Non si sente un eroe, non ha voluto sfidare nessuno. Ha solo deciso di richiedere il rispetto di piccole regole. C'è chi le infrange, le regole: ma c'è anche chi - più insidiosamente - omette di tutelarle. I secondi non sono migliori dei primi.«È una storia al tempo stesso personalissima e generale, in cui mi sono trovato coinvolto, insieme a centinaia e centinaia di cittadini del quartiere in cui vivo, a migliaia e migliaia di persone di tante altre città. Voglio raccontarla perché penso che soltanto chi abbia patito sulla propria pelle il problema possa mostrarlo con maggiore chiarezza, possa aiutare gli altri a identificarlo nella sua pericolosa portata. La delinquenza non ha colore di pelle, né tanto meno ha a che vedere con la diversità delle etnìe o delle culture. La delinquenza resta tale in sé anche al di là dei modi, delle armi e delle infamie in cui si esprime».
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