Le prime frasi del libro:
Il recupero settimanale dell'infanzia
Lo scrittore Guillermo Cabrera Infante detesta il calcio. La scarsa tradizione cubana in questo sport potrebbe giustificarlo, ma i suoi oltre venticinque anni in Inghilterra annullano una simile spiegazione. Ricordo la sua collera e le sue ingiurie quando accadde la tragedia di Heysel. Discostandosi per una volta da Nobokov, che era stato portiere nel suo esilio a Cambridge e fino alla fine della sua vita si divertì a vedere partite alla televisione, non incolpava i tifosi del Liverpool, ma lo sport stesso: "Quel gioco nefasto, - diceva, - incita alla violenza perché è violento in sé: si gioca con i piedi, e vi sono pochi movimenti feroci come quello che comporta lo sferrare un calcio". È curioso che, invece, negli Stati Uniti il calcio non abbia prosperato perché lì lo si considera troppo lento e delicato, una pratica da signorine. E in effetti, quando sono stato per alcuni mesi nell'università esclusivamente femminile del Wellesley College, lo sport preferito dalle alunne non era altro che l'arte di Di Stéfano, con mia grande sorpresa. Certo poteva essere dovuto all'influenza dello stesso Nobokov, che passò da quelle parti negli anni Cinquanta e forse vi instaurò la tradizione.
Quel che so per certo è che non esiste sport che angosci di più, quando è angoscioso. Anzi, nel mio caso particolare confesserò che è tra le poche cose che mi fanno reagire oggi allo stesso modo - esatto - in cui reagivo quando avevo dieci anni ed ero un selvaggio, il vero recupero settimanale dell'infanzia. Un mese fa mi sono addirittura spaventato: poiché il mio televisore era privo di decodificatore, ho dovuto seguire l'ultima giornata della Liga spagnola per radio, come nel dopoguerra e anche dopo. Forse fu questo che mi riportò con troppa veemenza agli anni più indomiti della mia infanzia, ma di sicuro quando, finite le partite, il mio editore culé mi telefonò con l'inno del Barça come musica di fondo e pronto a quegli scherzi che - sempre tra le risate e senza accenno di cipiglio - ci scambiammo a centinaia per tutto il mese, gli annunciai assolutamente serio che non avrei mai più potuto pubblicare con lui; e non soltanto questo, ma anche che dubitavo che sarei mai tornato a Barcellona (città che amo e dove ho vissuto) e certo non avrei mai messo piede a Tenerife. Venne fuori l'hooligan che tutti noi appassionati ci portiamo dietro.
Per fortuna tutto quanto mi passò nel giro di alcune ore - ma non meno -, perché il calcio sopporta una maledizione che allo stesso tempo è la salvezza di giocatori, allenatori e ultrà afflitti da una sconfitta. Si tratta di un'attività in cui non basta vincere, ma bisogna vincere sempre, in ogni istante, in ogni torneo, in ogni partita. Uno scrittore, un architetto, un musicista possono prendersela un po' comoda dopo aver fatto un grande romanzo, un meraviglioso edificio, un disco indimenticabile. Possono non fare niente per un certo tempo o fare qualcosa di minore. Tra i primi, che sono quelli che conosco di più, ve ne sono che hanno finito col diventare bravi per decreto e fino alla fine dei loro giorni grazie a una sola opera rimarchevole scritta cinquant'anni prima. Nel calcio, al contrario, non c'è posto per il riposo né per il divertimento, a poco serve avere uno straordinario palmarès storico o aver conquistato un titolo l'anno prima. Non si considera mai che già si è fatto, ma si esige (e gli stessi giocatori lo esigono da loro stessi) di vincere anche l'incontro successivo, come se si cominciasse da zero sempre, analogia del risultato iniziale in ogni partita. A differenza di altre attività della vita, nello sport (ma soprattutto nel calcio) non si accumula né si fa tesoro di niente, nonostante le sale dei trofei e le statistiche sempre più valutate. Essere stato ieri il migliore oggi non conta più, figuriamoci domani. L'allegria passata non può fare niente contro l'angoscia presente, qui non esiste la compensazione del ricordo, né la soddisfazione per quel che è stato già raggiunto, né naturalmente la gratitudine del pubblico per la gioia procurata due settimane prima. Neppure, quindi, esistono per lungo tempo la delusione e lo sdegno, che da un giorno all'altro possono vedersi sostituiti dall'euforia e dalla santificazione. Forse per questo il calcio è uno sport che incita alla violenza, come diceva Cabrera: e non a causa dei calci, ma per l'angoscia.