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L’imperativo della flessibilità ha invaso da oltre un decennio lo spazio sociale europeo. Ed è innegabile che con questo termine vengano oggi riassunti il tono e il senso delle esperienze che si stanno realizzando nella sfera delle attività lavorative.Gli autori di questo volume scelgono una scala europea, e operano innanzitutto un’accurata distinzione tra flessibilità del lavoro e flessibilità dell’occupazione. Questi due termini non sono affatto sinonimi. Flessibilizzare il lavoro vuol dire garantire che l’attività umana divenga malleabile, adattandosi alle esigenze specifiche della produzione. Flessibilizzare l’occupazione significa invece renderne variabili le caratteristiche, in termini di tempo di lavoro, di luoghi e condizioni del suo esercizio, di regole e norme. Mentre dunque la flessibilità dell’occupazione rimette in causa gli elementi di sicurezza e di garanzia fin qui acquisiti, la flessibilità del lavoro non comporta, in sé, alcuna necessità in questo senso. L’avere creato un nesso insolubile di dipendenza tra i due concetti ha posto le condizioni di una doppia rigidezza. Per gli ultra-liberisti la flessibilità deve essere praticata nella maniera più intensa a entrambi i livelli; viceversa, per i critici più radicali del capitalismo, qualunque flessibilità è di per sé un elemento destabilizzante. Chiarita la cornice teorica della discussione, il libro affronta le questioni aperte. Come si applica concretamente, nei contesti considerati, la flessibilità dentro le imprese? E in che modo essa concerne gli occupati? Fino a che punto modifica i principi del lavoro salariato? E come coniugare i vantaggi della flessibilità del lavoro con un quadro in cui l’occupazione possa essere garantita? E infine: quale deve essere, in questo contesto, il ruolo dello Stato?
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