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Foe
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Foe - J. M. Coetzee - copertina
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Foe

Descrizione


Susan Barton naufraga in un'isola abitata solo da un uomo enigmatico, Cruso, e dal suo servitore, Venerdì. Del loro passato, Susan riesce a sapere poco o nulla. Cruso le rivela solo che Venerdì è incapace di parlare: qualcuno gli ha mozzato la lingua quand'era ancora bambino, condannandolo a un eterno silenzio. Dopo la morte di Cruso, Susan, salvata e riportata in Inghilterra insieme a Venerdì ha un unico desiderio: che uno scrittore, Foe, racconti dell'isola, di lei, di Cruso e, soprattutto, dia voce al silenzio di Venerdì che, giorno dopo giorno, si fa insopportabile. Coetzee reinventa la vicenda di Robinson Crusoe, puntando lo sguardo sulla narrazione, arte tirannica, mistificatoria, e però necessaria, l'unica salvezza nell'oscuro disegno della vita.
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Dettagli

2007
Tascabile
20 marzo 2007
145 p., Brossura
9788806186586
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Indice


Le prime frasi del libro:

«Alla fine non riuscii più a remare. Avevo le mani piene di vesciche, la schiena scottata, il corpo dolorante. Con un sospiro, sollevando appena qualche spruzzo, scivolai nell'acqua. A lente bracciate, con i lunghi capelli che mi fluttuavano intorno, come un fiore di mare, come un anemone, come una medusa di quelle che si vedono nelle acque del Brasile, nuotai verso l'isola sconosciuta; per un poco nuotai come avevo remato, controcorrente, poi, d'un tratto, libera, mi lasciai trasportare dalle onde fin dentro la baia e sulla spiaggia.
«Mi abbandonai sulla sabbia cocente, la testa colma del fulgore arancio del sole, mentre la camiciola (l'unica cosa con cui ero fuggita) mi si asciugava addosso, incrostandosi; ero stanca, grata, come lo sono coloro che si sono salvati.
«Un'ombra nera calò su di me, non di una nuvola ma di un uomo cinto da un alone accecante. "Naufragio, - dissi con la lingua impastata. - Ho fatto naufragio. Sono sola". E tesi le mani piagate.
«L'uomo mi si accovacciò accanto. Era nero: un negro con un'irsuta testa lanosa, nudo, non fosse stato per un paio di brache grezze. Mi tirai su e osservai la faccia piatta, i piccoli occhi spenti, il naso largo, le labbra carnose, la pelle non nera ma di un grigio scuro, secca, come cosparsa di polvere. "Agita", provai a dire in portoghese, e feci il gesto di bere. Non reagì, ma mi guardò come avrebbe fatto con una foca o una focena gettate a riva dalle onde, prossime a morire e a venire possibilmente squartate e mangiate. Accanto a lui c'era una fiocina. Sono giunta sull'isola sbagliata, pensai, e lasciai ricadere la testa: sono giunta su un'isola di cannibali.
«Allungò una mano e con il dorso mi sfiorò il braccio. Sta tastando la carne, pensai. Ma, a poco a poco, cominciai a respirare più adagio e mi calmai. Puzzava di pesce, e di lana di pecora in una giornata torrida.
«Poi, giacché non potevamo restare così per sempre, mi misi a sedere e di nuovo feci il gesto di bere. Avevo remato tutta la mattina, non bevevo dalla sera prima; pur di avere dell'acqua, non m'importava se dopo mi avrebbe ucciso.
«Il negro si alzò e mi fece segno di seguirlo. Mi condusse, irrigidita e dolorante, attraverso dune sabbiose e lungo un sentiero che s'inerpicava nell'entroterra collinare dell'isola. Ma avevamo appena cominciato a salire che sentii una fitta, e dal calcagno tirai fuori una lunga spina dalla punta nera. Sebbene l'avessi massaggiato, di lì a poco il calcagno si gonfiò finché, dal male, non riuscii nemmeno a zoppicare. Il negro mi offrì la schiena, facendomi capire che mi avrebbe portato lui. Esitai, perché era esile, più basso di me. Ma non potei farne a meno. Così, un po' saltellando su una gamba, un po' in groppa a lui, con la camiciola rimboccata e il mento che gli sfiorava i capelli crespi, salii il pendio, mentre la paura si attenuava in quello strano abbraccio a rovescio. Non badava a dove metteva i piedi, notai, ma addirittura schiacciava sotto le piante interi viluppi delle stesse spine che mi avevano trafitto la pelle.
«Ai lettori cresciuti con i racconti di viaggio, le parole isola deserta potrebbero evocare un luogo di sabbie soffici e alberi ombrosi, dove scorrono ruscelli che placano la sete del naufrago e gli cadono in mano frutti maturi, dove gli si richiede solo di trascorrere le giornate sonnecchiando in attesa della nave che lo riporterà a casa. Ma l'isola sulla quale avevo fatto naufragio io era un luogo del tutto diverso: una grande collina rocciosa dalla cima piatta, a picco sul mare tranne che su un lato, punteggiata di cespugli stenti che non fiorivano mai e non perdevano mai le foglie. Al largo dell'isola c'erano banchi di alghe brune che, portate a riva dalle onde, sprigionavano un fetore disgustoso e nutrivano sciami di grandi pulci chiare. Le formiche brulicavano ovunque, simili a quelle che avevamo a Bahia, e tra le dune viveva anche un altro insetto nocivo: un essere minuscolo che si annidava tra le dita dei piedi e, rosicchiando, si apriva un varco nella carne. Persino la pelle dura di Venerdì non era loro di ostacolo: nei suoi piedi c'erano crepe sanguinanti, sebbene non ci facesse caso. Non vidi serpenti, ma nelle ore più calde della giornata lucertole uscivano a scaldarsi al sole, alcune piccole e agili, altre grandi e sgraziate, con collari azzurri intorno agli opercoli, che allargavano di colpo quando si spaventavano, sibilando con sguardo truce. Ne catturai una e cercai di addomesticarla, nutrendola di mosche; ma non mangiava carne morta, sicché alla fine la lasciai libera. C'erano anche scimmie (di cui parlerò più avanti) e uccelli, uccelli dappertutto: non solo nugoli di "passeri" (o cosi almeno li chiamavo) che svolazzavano tutto il giorno cinguettando di cespuglio in cespuglio, ma, sulle scogliere a picco sul mare, grandi colonie di gabbiani e gavine e sule e cormorani, così che le rocce erano bianche dei loro escrementi. E, nel mare, focene e foche e pesci di ogni specie. Così, se la compagnia di creature brute mi fosse bastata, sulla mia isola avrei potuto vivere felice. Ma chi, abituato alla pienezza della parola umana, riesce ad accontentarsi di gracchi e cinguettii e strida, e del latrato delle foche, e del gemito del vento?

Valutazioni e recensioni

Valentina Visciotto
Recensioni: 5/5

Ogni volta che inizio un nuovo libro di Coetzee una piccola parte di me sotto sotto spera di scovare l'imperfezione, di percepire una perdita di tono, un cedimento rispetto agli standard eccelsi a cui ci abitua, se non altro per essere rassicurata del fatto che mi trovo davanti al prodotto di un essere umano fallibile. Quella piccola parte di me rimane puntualmente sconfitta su tutta la linea. Questa volta la protagonista è una donna ( e io tremo ogni volta che ho a che fare con protagoniste femminili, se posso le evito ) che dopo aver vissuto l'esperienza del naufragio su un'Isola deserta torna in patria portandosi dietro l'ossessione di dover rendere immortale la propria storia. Così si rivolgerà al Signor Foe ( ovvero Daniel Defoe, ovviamente ) sperando che accontenti la sua esigenza. Purtroppo si troverà a sbattere contro la sua reticenza, che lo renderà inizialmente elusivo, per via della totale mancanza di attrattiva della vicenda da lei vissuta. Niente cannibali sanguinari, niente storie d'amore travolgenti, nessun ritorno agli istinti primordiali. Solo silenzio, solitudine condivisa con l'uomo che la raccolse dalle acque, refrattario a qualsiasi forma di condivisione e dialogo e il suo schiavo Venerdì, reso muto dall'amputazione della lingua fin dall'infanzia. Non ci sono gli elementi tragici e il dinamismo o il romanticismo che rendono una storia vendibile. Da qui Coetzee tira le fila innanzitutto per quella che a me è sembrata una dichiarazione d'amore spassionata verso la letteratura come arte ma allo stesso tempo pone la questione della sofisticazione della verità, della sua manipolazione e del sottile confine tra finzione e realtà che qui si mescolano rendendo lo stesso lettore realmente confuso e disorientato tanto quanto la protagonista, che è a un tempo il personaggio fittizio dello scrittore e la persona concreta nella propria personale esperienza. D'altro canto riporta in qualche modo l'esperienza coloniale, che oltre ad aver privato gli indigeni di qualsiasi diritto su se stessi e sulla loro terra, li ha anche privati della parola. Della facoltà di raccontare la propria storia.

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Rossana Porcaro
Recensioni: 5/5

Un testo che riesce a sorprendere, nonostante la storia a cui fa riferimento "Robinson Crusoe" sia ben nota. Robinson Crusoe, opera scritta da Daniel Defoe, conosciuta per essere il primo vero e proprio romanzo britannico, è divenuto il manifesto del colonialismo inglese. Marx ritrova in Robinson il primo vero e proprio capitalista, Coetzee invece vuole mettere in risalto un altro aspetto. Robinson, nel suo incontro con Friday (nell'opera di Defoe) subito pensa di ''sottometterlo'', non pensa di poter imparare qualcosa da lui, i suoi usi e costumi, ma decide immediatamente di insegnargli la sua lingua e di farne un cristiano, proprio per questo motivo è il simbolo dell'imposizione della cultura inglese nel periodo del colonialismo. Coetzee decide, invece, di ribaltare tutto, vuole far capire il suo punto di vista accentuando alcuni tratti dell'opera originale e capovolgendone altri. Friday ad esempio, lo scopriamo già dalle prime pagine, è muto. Muto perché in ogni caso non è riuscito ad esprimersi nel contatto con il "padrone" Robinson, nell'opera di Defoe, Ancora, la protagonista è una donna, Susan Barton, che racconta quanto avviene sull'isola.. cosa che non avviene per l'opera di Defoe in cui la donna non viene quasi mai nemmeno nominata.

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J. M. Coetzee

1940, Città del Capo

John Maxwell Coetzee è uno scrittore sudafricano di lingua inglese, ma di discendenza afrikaner. Nel 2003 viene insignito del Premio Nobel per la Letteratura.Nelle sue opere narrative ha attaccato il sistema dell'apartheid e condannato il colonialismo nei suoi vari esempi storici, trovando il giusto equilibrio tra esigenza di denuncia e attenzione alle necessità tecniche ed estetiche del romanzo. Il suo esordio letterario avviene nel 1974 con Deserto, al quale fanno seguito Nel cuore del paese (1977), Aspettando i barbari (1980), Storia di una fattoria africana (1983), Foe (1986).Coetzee esplora nuovi territori letterari con Il Maestro di Pietroburgo (1994), Torna all’attualità con il romanzo Vergogna (1999, vincitore del Booker Prize; pubblicato in Italia nel...

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