Un goccio di pinga e un piatto di fagioli per colazione alle cinque di mattina. Il tempo di affilare i coltellacci sulla porta dello spaccio e alle sette si è già a tirar giù cocchi di cacao dalle piante, tra le foglie secche che tappezzano la terra e i serpenti che si scaldano al sole. I profumi, i colori, l’atmosfera sono belli, dolci, irreali. Il lavoro invece è un vero incubo. Alle nove si è già stesi su tavolacci di legno, il silenzio regna sovrano, il sonno è di quelli senza sogni né speranze. Il giorno dopo si ricomincia da capo e i tremilacinquecento réis, frutto di questa immane fatica, finiscono tutti nello spaccio dove si è costretti ad acquistare viveri e bevande a condizioni disumane. Qualcuno riesce a risparmiare qualcosa per passare il sabato sera in dolce compagnia a Pirangi, altri passano mesi senza uscire dalla fazenda e spesso soddisfano i loro istinti nei modi più beceri. Una vita fuori dal mondo, una miseria che non interessa a nessuno, un vago presentimento che tutto ciò un giorno finirà. Come, non è dato saperlo. Il prete, vestito di oro e seta, chiede obbedienza per sé e per il padrone e ammonisce, pena l’inferno, dal dare ascolto a pericolose teorie egualitarie. I braccianti si guardano intorno, vedono la casa del Coronel, bella, immensa, elegante. Poi guardano le loro baracche di fango, coperte di paglia e allagate dalla pioggia. La differenza è abissale. Qualcuno afferma rassegnato che in fondo è Dio a decidere a chi dare la fortuna e a chi no. Qualcun altro risponde stizzito che anche Dio è dalla parte dei ricchi. La premessa di Amado è chiara, l’opera punta poco sull’aspetto letterario e molto sul dovere di cronaca. Il secondo è ampiamente rispettato, la vita dei braccianti delle piantagioni brasiliane di cacao negli anni Trenta è descritta in maniera magistrale, con tutta la durezza, la tristezza, l’ingiustizia che ne scaturiscono. Il primo, nonostante il preludio, non appare certo di secondo livello, grazie alle grandi doti letterarie di un autore capace di tirar fuori sempre e comunque libri di grande spessore che affiancano la goliardia alla denuncia, la magia di atmosfere quasi oniriche all’efferatezza della realtà, l’amore all’odio, l’allegria alla tristezza. Sempre nel preambolo, Amado si chiede se quello che verrà fuori sarà un romanzo proletario. La risposta, inevitabilmente, è affermativa ed eloquenti, al riguardo, sono le parole del protagonista: “Perché non hai ammazzato Colodino? Perché gli volevi bene? - Mi piaceva Colodino…Non l’ho preso perché era affittato come noi. Uccidere un Coronel va bene, ma uno che lavora non lo ammazzo. Non sono un traditore… - Solo parecchio tempo dopo ho saputo che il gesto di Honòrio non si chiamava generosità. Aveva un nome più bello: Coscienza di Classe.”
Cacao
Dopo una breve infanzia agiata e felice a Sao Cristovao, la tragedia della morte del padre e i soprusi dello zio costringono il quindicenne sergipano (così chiamato perché nativo di uno stato del Nordest del Brasile, il Sergipe) a lavorare in fabbrica. Inseguendo i sogni collettivi di emigrare nelle zone del cacao, il ragazzo finisce per lasciare casa sua alla volta di Pirangi. Là, nella Fazenda Fraternidade del coronel Mané Frajelo, il mito del cacao crolla nell'impatto con la durezza della realtà e con la disperazione della miseria. Un romanzo corale, popolare, scritto con toni appassionati e vibranti da uno scrittore (appena ventenne) che vuole portare alla ribalta letteraria l'esistenza di classi sociali che soffrono.
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Titolo: CacaoAutore: Amado JorgeEditore: Einaudi TascabiliAnno: 1998Brossurato. Ottima Copia.
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Anno edizione:1998
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Enrico Caramuscio 02 luglio 2015
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