(Dublino 1882 - Zurigo 1941) scrittore irlandese di lingua inglese.La vita Primogenito di una numerosa famiglia della buona società di Dublino, di forte tradizione cattolica e nazionalista, studiò nei migliori collegi cattolici della città. Poi le condizioni della famiglia andarono declinando, fino a una situazione di vera indigenza, dopo la morte della madre (1903). L’educazione gesuitica ebbe un’importanza fondamentale nella formazione di J., tanto da provocare nell’adolescente una temporanea vocazione sacerdotale, presto mutatasi in rivolta. Dopo la pubblicazione dei primi lavori letterari, ancora all’università, conobbe Yeats ed ebbe un lusinghiero contatto epistolare con Ibsen. Dopo la laurea, spinto da un vago proposito di studiar medicina alla Sorbona, trascorse un breve periodo a Parigi. Rientrato a Dublino, lasciò definitivamente l’Irlanda nel 1904 per recarsi in volontario «esilio» sul continente. Era con lui Nora Barnacle, che gli sarebbe rimasta accanto tutta la vita, dandogli due figli, Giorgio e Lucia. Dapprima J. fu a Zurigo, dove contava di ottenere un posto d’insegnante presso la Berlitz School; poi, deluso, si trasferì a Pola e, l’anno seguente, a Trieste, dove rimase (salvo una breve parentesi romana fra il 1906 e il 1907) fino al 1915, insegnando alla Berlitz e in altri istituti, e legandosi d’amicizia con Italo Svevo. La guerra lo costrinse a lasciare Trieste per Zurigo, dove soggiornò fino alla fine del conflitto entrando in contatto con Pound e intrecciando molte amicizie. Nel 1920 si trasferì a Parigi, dove rimase vent’anni, frequentando Valéry-Larbaud, Aragon, Eluard, Th.S. Eliot, Hemingway, Fitzgerald, Beckett. In quegli anni i disturbi alla vista, di cui aveva già sofferto a Zurigo, si riacutizzarono; ebbe gravi preoccupazioni familiari, in particolare per la salute della figlia Lucia. Fu per curare Lucia che nel 1934 ebbe un incontro con C.G. Jung, grazie al quale approfondì le sue conoscenze sulla psicologia del profondo. Lasciata la Francia a causa della guerra imminente, si stabilì nuovamente a Zurigo, dove morì nel 1941.Le opere dell’esordio J. esordì come poeta con una raccolta di 36 brevi liriche, Musica da camera (Chamber music, 1907): i temi sono quelli dell’amore, della bellezza femminile, del tradimento, della malinconia; lo stile è semplice, attento al ritmo, alla musicalità del verso, all’armonia delle immagini. Gli stessi caratteri avrà la seconda raccolta, le 13 Poesie da un soldo (Poems penyeach, 1927). Nel 1918 apparve l’unica opera teatrale, Esuli (Exiles), lavoro giovanile, legato all’autobiografia spirituale, se non agli eventi concreti della sua vita, fortemente influenzato da Ibsen.«Gente di Dublino» e il «Ritratto dell’artista da giovane» L’opera narrativa inizia nel 1914 con Gente di Dublino (Dubliners); sono 15 racconti, scritti nel decennio precedente, disposti secondo un disegno organico; i primi tre sono dedicati all’infanzia, i quattro successivi all’adolescenza, altri quattro alla maturità; infine, negli ultimi quattro, J. volle fornire una testimonianza della vita pubblica di Dublino, dominata da frustrazioni, delusioni e incapacità di agire, giustificando così, implicitamente, il suo volontario «esilio». Nel 1917 apparve il Ritratto dell’artista da giovane (A portrait of the artist as a young man), più conosciuto in Italia e in Francia col titolo di Dedalus. È la prima opera matura di J. e fu preceduta da una prima versione i cui ultimi capitoli, notevolmente diversi dal testo definitivo, vennero pubblicati postumi col titolo di Stefano eroe (Stephen hero, 1944). Il romanzo autobiografico, al tempo stesso autoapologetico e autocritico, ha per materia il processo del diventare artista, indagato e rappresentato fin dagli anni dell’infanzia.La rivelazione dell’«Ulisse»Ulisse (Ulysses, 1922), il capolavoro e l’opera più nota di J., e uno dei libri fondamentali della letteratura moderna, nacque dall’intento di far rivivere ironicamente le peregrinazioni dell’Ulisse omerico in una sola giornata della vita di Leopold Bloom, ebreo irlandese. Episodi, scene e fatti sono costruiti con più o meno evidente parallelismo rispetto all’opera omerica; in tale parallelismo, tuttavia, non si esauriscono i significati del romanzo, che ambisce a comprendere in un’ardua summa tutti gli aspetti dell’uomo moderno e dei suoi rapporti con la società. Come osservò Th.S. Eliot, il mito di Ulisse serve a J. per conferire ordine, senso e forma al panorama di «immensa futilità e anarchia della storia contemporanea»: l’Ulisse è così, di volta in volta, drammatico, farsesco, parodistico, sentimentale, pedante, commovente, polifonico, caotico.L’intricata simbologia della «Veglia di Finnegan» L’ultima e incompiuta opera di J., La veglia di Finnegan (Finnegans wake, 1939), dà un’impressione di rarefazione e di caos. Fondamentale nel romanzo (il cui titolo fa riferimento a una ballata popolare irlandese) è la teoria dei corsi e ricorsi di Vico, che ne forma la struttura portante. Un intricato tessuto di simboli e di miti convive con la rappresentazione allusiva e travestita di eventi della realtà contemporanea, contribuendo a suscitare nel lettore un’impressione di quasi insondabile complessità. Il linguaggio, già fortemente manipolato in Ulisse mediante la «condensazione» di parole, sembra qui prescindere da ogni normale intento comunicativo, per trasformarsi in una sorta di suggestivo magma proteiforme.Portata rivoluzionaria dell’opera di Joyce J. concentrò la propria opera sul suo stesso personaggio, il suo ambiente, la sua vita; tutti i suoi libri costituiscono un tentativo di dire la verità, senza finzioni e senza veli. L’esigenza di una verosimiglianza rigorosa e totale, il bisogno (etico ed estetico insieme) di accettare e analizzare la vita umana in ogni suo aspetto, che sono comuni, in varia misura, a tutta la letteratura del Novecento, assunsero con l’opera di J., in particolare con l’Ulisse, un’incidenza e un’evidenza di portata rivoluzionaria, destinata ad aprire una serie imponente, e certo non conclusa, di ripercussioni nella letteratura mondiale contemporanea, tanto che non è azzardato suddividerne il corso in due fasi: pre- e post-joyciana. Il monologo interiore, una delle tecniche espressive del «flusso di coscienza», la cui idea iniziale e la cui stessa denominazione sono contenute nei Principi di psicologia (1890) del filosofo americano William James, rispose pienamente agli scopi di J., che ne fece largo uso sia nell’Ulisse sia nella Veglia di Finnegan; attraverso il monologo interiore, il lettore viene coinvolto interamente nella verità della narrazione perché legge, metaforicamente, nel pensiero dei personaggi, abita nel loro inconscio. All’elaborazione di questa tecnica da parte di J. non furono estranee le dottrine freudiane, anche se manipolate in modo libero. La complessità epistemologica del romanzo si riflette nel linguaggio, che combina vocaboli e sintagmi in parte o totalmente nuovi e suggerisce ricche letture a più livelli (in chiave retorica, «materica», psicoanalitica, mitologica ecc.).