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"Biscotti al Malto Fiore per un mondo Migliore", recitano i due settenari in rima; il punto esclamativo non c'è, ma si sente. In quanto sintesi massima del libro, il titolo di solito anticipa il contenuto, ma in questo caso anche la forma; ed infatti, prima della storia divertente e leggera come una stella filante, è la scrittura di Laura Sandi a mostrare le sue grazie, una scrittura che non eccede di una sola parola pur avvalendosi, senza troppe riserve, di avverbi ed aggettivi che in qualsiasi altro caso risulterebbero logori. Ecco, la lingua di Laura Sandi è così sincrona allo stile della protagonista e allo sviluppo della storia, che un'associazione di parole quali "mani smisuratamente grandi e forti" non pecca di banalità, perché Leda, enfant prodige nella dimensione favolosa in cui tutti i bambini lo sono, non potrebbe descrivere che con tali parole le mani di suo padre. Basterà dire che Leda vive in una torre d'avorio con due genitori scultori di opere a scala e a numero inversamente proporzionale - il padre, russo e immobile come nella migliore tradizione sovietica, lavora su pietre così grandi che lo fanno somigliare più ad un arrampicatore delle dolomiti che ad un artista; la madre, dubbia come un ologramma, riproduce i medesimi lavori in dimensioni ridotte e in numero industriale. "Grazie a mio padre ogni tanto diventavamo ricchissimi, ma grazie a mia madre eravamo ricchi tutti i giorni." Oltre ai genitori c'è una donna di servizio che è la vera padrona di casa, nel senso più economicamente domestico del termine (tant'è che in assenza dei padroni affitta villa e infante ai set pubblicitari), un giardinere-botanico che crea mostri da serra, i fratelli maggiori, gemelli che Leda semplicemente identifica come "il ragazzo doppio di nome Libero e Furio" e infine una nonna cantante lirica e un cane campione di corsa alla magnolia. Leda esce per la prima volta dalla sua villa fatata quando va alle elementari e scopre il mondo, quello vero: i dolori umani e reali fatti di contusioni, graffi e diserzioni familiari - molto diversi dalle miserie drammatiche fatte di sangue ed abbandoni delle opere liriche che le racconta sua nonna. La magia e lo stupore di Leda, però, aumentano, invece di diminuire, perché la Sandi rovescia la stessa dimensione del fantastico: cosa c'è di più stupefacente dell'ordinario, per una bambina imprigionata per anni nello straordinario? E' così che la favola resta delicata e luminosa anche quando diventa vita vera, è così che nelle ultime 50 pagine, l'autrice, sempre perfettamente mimetizzata, richiama all'appello gli episodi di un intreccio così fine che neanche sembrava volto ad un esito sincretico; nell'ultimo quarto del libro la Sandi fa convogliare tutto il narrato dopo aver forse peccato di eccessiva misura nella narrazione precedente, che si svolge piana, cadenzata e rassicurante come una pedalata a Ferrara di domenica mattina. Non mancano lampi di genio e di ironia, episodi simbolici o vagamente inquietanti, ma non ci sono importanti tensioni narrative per i primi tre quarti del libro, perché la Sandi, volontariamente, tende a riassorbire nell'omogeneità del narrato i tratti più arditi, tende a levigare la sua chimera, come una scultura del Canova. La Sandi è biograficamente vicina a Leda, è laureata in Lettere ed esce dalla scuola Holden; il suo primo libro non è certo un esperimento, ma già il risultato di molta educazione ed esperienza artistica. Forse appena un soffio troppo accademismo.
Si riesce a superare in fretta l’imbarazzo di una costruzione alquanto impervia di alcune frasi e pensiero, che a tratti, nel capitolo e mezzo iniziale, costringe a rileggere con calma fino ad accorgersi che le parole non sono soltanto un bizzarro e piacevole accostamento linguistico ma hanno un senso preciso. Diciamo che da pagina 14 in poi il racconto si fa concreto e, per quanto apparentemente incredibile (ma davvero c’è una casa così e una famiglia così e una bambina così?), ti trascina subito nella storia e ti tiene lì per sei anni interi. Un romanzo di formazione, si direbbe, dove chi si forma è una bambina, e poi ragazzetta. Leda filtra ciò che le succede con le lenti delle proprie (scarsissime) conoscenze, accetta ciò che non si spiega, spiega da sé ciò che sembra inspiegabile, affronta la scuola elementare tra svenimenti e sfide durissime (come sono quelle tra bambinette di quell’età), depressioni materne, viaggi, bambagia, telefonate che cambiano la vita di una bambina ricca e, per ciò stesso, tenuta fuori dalla salvezza eterna più del famoso cammello che passerà dalla cruna dell’ago. Ricorda, per impostazione, copertina, classificazione, il libro di D’Avenia ("Bianca come il latte..."), ma, nella improbabilità apparente di certe situazioni è molto più credibile e godibile. Merito forse della scrittura che sposa il punto di vista bambino con una cura piacevole del linguaggio e risolve così anche le impasse della narrazione (che, ovviamente, mica sto qui a dirvi). A volte criptico (in certi passaggi veloci e chiari per la protagonista, meno per chi legge), si scorre in una sera, senza fatica, lasciando il ricordo di una ragazzina simpatica, buffa, coraggiosa senza saperlo e lineare (se così si può dire di una persona). Gradevole.
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