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La voce narrante di questo “Poema bianco” di Pasquale Panella è femminile (come dichiara in apertura l’autore), e scandisce in tre sezioni di versi liberi una lunga e silenziosa riflessione in cui si confondono rimpianto e ironia, elegia e sarcasmo, logicità e insensatezza: a sottolineare una storia di amore e disamore, fedeltà e stanchezza, nel suo nascere crescere finire. Non assistiamo a una pièce teatrale destinata a un pubblico di spettatori, né a un dialogo che attenda risposte da un interlocutore privilegiato. Piuttosto rileviamo la volontà esplicita di districare, in un soliloquio lucidamente controllato, i fili aggrovigliati della mente, illuminando zone oscure del cuore e della memoria. Il bianco citato nel titolo rimanda sia al candore sia al vuoto, alla pagina ancora da scrivere come a quella cancellata, a un’esigenza di chiarezza interiore o al bisogno di silenzio. Il poema pare invece riferirsi alla forma che assume sulla pagina questo monologo, un vero e proprio flusso continuo di versi, in cui i segni di interpunzione sono dati da virgole-virgolette-parentesi, e assidui, incalzanti punti di domanda. Nessun esclamativo, e un unico punto fermo conclusivo, dopo la parola “Fine”. Pasquale Panella, che nella sua vita artistica ha consegnato parole importanti a musiche altrettanto importanti (di Battisti, Cocciante, Minghi, Zucchero…), sembra anche qui voler dar voce a una sonorità di base che, sviluppandosi da armonie attutite e terse, si spezzano frequentemente in improvvise dissonanze, in brusche alzate di accenti, in ribadite sottolineature. Così il tono colloquiale, lo scherno, la battuta ironica irrompe ad alterare o prosaicizzare il carattere più delicato e nostalgico della profferta amorosa rivolta a un assente. In un lunedì sera piovoso di un mese imprecisato, una “lei” parla a se stessa e di se stessa, parla a un “lui” e parla di lui, pur diffidando di qualsiasi possibilità di comunicazione e di reciproca comprensione.
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