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Vi è sempre un nesso profondo che lega il «fare storia» alle domande del presente. E le questioni della storiografia non erudita o accademica sono sempre strettamente legate ai problemi dell'oggi.Ora, il valore degli studi di Pier Paolo D'Attorre - sottratto all'impegno universitario e civile da una prematura scomparsa - non consiste solo nel rigore del metodo, nell'«intelligenza» interpretativa o nella solidità della ricerca. Essi sono piuttosto una testimonianza di come fosse possibile restituire validità e senso a un'area di ricerca - la storia dell'agricoltura - che l'evoluzione complessiva della società italiana sembrava rendere del tutto residuale: la rapida e caotica evoluzione in senso industriale del paese sanciva la «fine dei contadini», mentre l'esaurimento della conflittualità dei movimenti politici e sindacali legati alla terra sembrava trascinare nell'oblio anche l'interesse storiografico per un mondo morente, divenuto improvvisamente «antico» e lontano. Ma come era davvero avvenuta questa «grande trasformazione»? Con quali strumenti era possibile rileggerla e restituirla alla storia d'Italia? Con coerenza, D'Attorre ha posto al centro dei suoi studi l'analisi dell'evoluzione dei ceti dirigenti, del complesso sistema di rappresentanze politiche, sindacali e professionali espresso dall'agricoltura, individuando nella crisi e nella depressione degli anni trenta un cruciale momento di svolta per interpretare le successive evoluzioni delle campagne. Ancora, raccogliendo gli stimoli della più avvertita storiografia e della sociologia economica, ha individuato nelle peculiarità del rapporto centro-periferia e nell'evoluzione dell'antica contrapposizione tra città e campagna il nuovo volto dell'universo rurale italiano, indagato nelle sue aree più dinamiche, eredi - non a caso - delle zone di più alta e significativa combattività politica e sociale nella prima metà del Novecento.
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